Gli anni 70 – mitici o meno che li si ritenga – rivivono nelle pagine di Lupi e cani randagi (Edizioni di Pagina, 2013) sotto la penna di uno – Maurice Bignami – che da protagonista li ha vissuti e da protagonista, ancor più ed a più forte ragione, ce li fa rivivere davvero. Niente che vada comprato o venduto ma qualcosa da guadagnare, perché desiderabile e spendibile, ci si paventa lungo le trafile di questi “lupi e cani randagi” che s’aggirano in queste pagine per trasfigurarsi, nella lettura, in viandanti, eroi, pellegrini. Vi si scopre subito che il “randagismo” non detta legge (né quella del “secondo” né quella del “fuori”… legge). I protagonisti di questa storia-romanzo (perché è di realtà storica che si tratta qui) hanno, in effetti, uno strano modo di essere autori degli atti di cui si rendono imputabili soggetti: quello di cercare, ciascuno con suo piglio e carattere, un autore all’altezza della carne e del sangue della loro vita: così com’è, non appena per come essa “dovrebbe essere”. E Bignami lo sa; dunque non vi gioca sopra o – peggio! – addosso a e per nessuno di essi: non si scherza con la vita, tanto meno quando si scherza (e si ride di gusto in questo libro!) e ciò “Vale per l’alcol, il sesso, per tutti i sette vizi capitali”. Regime banalizzante?… Destituito e delegittimato in partenza.



Lo stesso David Rebecchi – creativamente speculare all’autore – non ha nulla del cliché avvilente dell’eroe da romanzo storico, né s’incarica di “sostituirsi” al lettore o, peggio ancora, alla vita stessa dello scrittore: vive sulla scena senza necessariamente “tenere il bandolo della matassa”, quel bandolo – s’intende quello della trama del libro – che lo vede protagonista a più forte ragione quanto più se lo vede sfuggir di mano. Prostitute e ladri, magnaccia o rivoluzionari, sbirri o trans, zii e madri trovano così pieno diritto di cittadinanza, senza con ciò assurgere a “casi sociali” ma neanche a bandiere (pretesto per battaglie) dei diritti del progresso: né un’accondiscendenza connivente né un irrigidito moralismo li fa vivere ma la vita stessa, quella di cui soffrono e godono e per cui nascono e muoiono, a loro modo, da protagonisti non come “inconvenienti”. Rivoluzione e resa, lotta armata e tenerezza, violenza ed amicizia non sono vissuti in nome di “valori” ma sono sofferti e/o goduti per un senso di vita che tarda a venire oppure assale d’improvviso. La “passionaria” Bona Boscari fa traslucere, esaltandole, le diverse tonalità affettive ed effettive della vicenda di David ma, al contempo, è lì ad orientarne lo sguardo, ad evidenziarne la debilità, ad accompagnarne il giudizio: come nel finale…



Ma ci sono motivi allo sconcerto che Bignami mi ha apportato con questo suo romanzo storico: gli stessi motivi che mi trovano grato debitore nei suoi riguardi. Tre parole trovano infatti, in questo suo scritto, consistenza e spazio laicamente spendibili perché restituiti al loro originario e “sacrosanto” significato. 

La prima. L’incipit dissacrante – “Alzò il coltello, lo puntò al soffitto e sputandosi addosso gridò: ‘Viva l’Italia!’   – trova il suo corrispondente oblativo nel finale – “…tra il  muro e una lavastoviglie; i piedi sanguinanti di qualcuno nascosto dietro un vecchio frigo … Così, a dispetto dello stile, feci un passo avanti nella preghiera…” In mezzo sta quel: “Prima, però, dovevo scavare ancora … Capire fin dove eravamo capaci di arrivare, tutti quanti. Quanto era buia la notte”. Tutto il dissacrante che questa storia di quegli anni spiattella in spudorata mostra al lettore trova la sua compiuta dissolvenza in quel supremo atto di – qui la parola – “consacrazione”. Proprio come un’ostia che, buttata di qua e di là − magari in una sacrestia umida o in un disadorno scantinato da bar – attende quell’atto supremo che ne farà ciò che è: una vita di uomo in carne ed ossa. Quello “scavare ancora” e quel “capire fin dove” restituiscono la tessitura di una vita nella quale il motivo dissacrante si svela come la materia (mai sufficientemente “bruta” da costituire obiezione all’avvenimento del suo essere consacrata) di attesa a dis-posizione per la sua compiuta e totale consacrazione, proprio ad opera di quell’imprevisto “qualcuno nascosto dietro un vecchio frigo…”. Che sia la vita di Rebecchi o quella di un’intera epoca non fa gran differenza al cospetto di quel “nascosto”.



La seconda. Sì, questa storia-romanzo ci rivela un’epoca (anni 70) travalicando gli stereotipi nei quali – ahinoi! – si è voluto comprimerla. Bignami non si limita  ad una “rivisitazione” di quegli anni ma, ben più radicalmente, ce ne offre una vivida e a tratti spudorata “rivelazione” – ecco la seconda parola. I piani, gli intrighi, le trame e i loro corrispettivi armatori rivelano una vita che, lontano dai dibattiti giornalistici come dalle acrobatiche dietrologie sociologiche dell’epoca (ma anche su di essa), sancisce e presagisce il per noi insospettabile disarmo ideologico. Sesso, droga e rock & roll intessono una vita tutta alla ricerca di se stessa, quella vita dove complicità e connivenza lavorano a preparare – loro malgrado − il loro più imprevedibile sovvertimento “sociale” a vantaggio di una riscossa operata per via di contrizione e pentimento: “…Era proprio così. Potevamo dirci veramente ogni cosa, senza vergogna. Ci legava l’orribile connivenza dei complici e forse un barlume di contrizione. Per stanchezza fisica, certo; per autentica lassitudine morale, per quella spossatezza, quello snervamento che ti coglie quando sei arrivato alla frutta, ma che si avvicina pur sempre a una specie di pentimento”. E sarà per voce del trans (Belém) che la poesia farà capolino nel bel mezzo di una notte esagitata: “‘…Non ci sono più segreti tra noi! Siamo qua, che è quasi l’alba, e il sole… forse!… tra poco risplenderà, e ci possiamo confidare anche le cose più brutte!’ Era una poetessa, Belém”. 

Gli anni di piombo ci sono restituiti, così, in una loro tonalità inedita ed insospettata: chi li ha vissuti ce li consegna sorprendendovi la nostalgia di una solarità rivelativa che liberi – allora come ora − il cielo della vita dalla plumbea cappa delle idee assassine. Ora, abituati come siamo a identificare gli anni 70 con piazze e manifestazioni, assemblee-fiume e scioperi ad oltranza, ci sfugge questa vita “rivelata” in una comune stanza di una casa messa lì, una vita dove la ragione attende la rivelazione del volto vero degli uomini e delle cose. Si noterà che in tutto il corso degli otto tempi che segnano la cronologia del racconto piove più dal cielo che dalle canne delle baiaffe di umana fattura. Nell’esperienza di David Rebecchi l’ideologia si disvela come una ragione ormai arrivata alla frutta proprio perché… non ha più banane (sic!) – e alla faccia della melassa languida dei cosiddetti “migliori anni” della nostra vita! Confermo, dunque: questo romanzo-storia suona, storicamente e letteralmente, come un’autentica “rivelazione”.

Finalmente la terza parola. Essa sta in capo a due scene del libro. Nella prima si vede il ragazzo Rebecchi che, nel consumare lo zabaglione caldo preparato dalla mamma, s’avvicina alla finestra e scrive il suo nome a stampatello sul vetro appannato: “David Rebecchi. Dopo di che, bevendo a piccoli sorsi, guardavo le lettere riempirsi di vapore e svanire piano piano”. Nella seconda l’ormai navigato terrorista si vede scoperto dal video lasciatogli dalla sua “amata” (Bona Boscari) prima di andare a morire  e nel quale svela i retroscena della storia in questione; anche qui la tazza contiene zabaglione caldo, una finestra sulle vie di Roma: “…Mi guardai in giro per vedere se da qualche parte ci fosse una finestra appannata su cui scrivere il mio nome, ma Roma non è Parigi e l’età non è più quella, e di me non avevo più alcuna considerazione. Ero una figura a cavallo del tempo e chi sa come cazzo mi potevo chiamare, ora!”. 

Se ad essere appannata è la vita, più che le finestre, la questione del nome ci costringe a fare i conti con la correlata vicenda dell’identità: gli otto tempi dell’opera ci si palesano, così, come la tessitura di un’autentica “confessione”. Sì, tutto David Rebecchi lavora a favore della confessione di Maurice Bignami proprio nel mentre questi si fa discepolo di quello. In essa vengono assunti uomini d’ogni tipo e fatti che si possono ora rileggere a ragion veduta: “Non ne potevamo più di andare avanti e indietro. Eravamo stanchi. Erano anni che facevamo quella vita (il mito della vita on the road, ereditata dai leggendari anni 60, volge qui al suo storico declino!) e cominciavamo ad essere inquieti, ad avere un sacco di dubbi. Incertezze ancora in buona parte inespresse, ma ormai ineludibili”. 

Cade un mito ma comincia la costruzione – o riedificazione – dell’io e della sua identità: opera di ricostruzione coincide con opera di confessione. Questa, tuttavia, rifugge dall’immagine stereotipata dei beveraggi spirituali a cui si è voluto furbescamente consegnarla (“…tutto ciò che non è originale, emancipato, non è frutto di una pretesa autonomia creativa, è per definizione di pessimo gusto. La carne è sempre un po’ trash!”); grazie ad essa Rebecchi ci rende edotti su cose che avremmo pagato per poter conoscere allora … ora lo ritroviamo a due passi da Ponte Vecchio a sostenere il difficile dialogo tra Prima Linea e Br sulla possibilità di una liberazione di Aldo Moro: “…riflessioni politiche. Esattamente opposte alle loro, anche se ottuse nella stessa misura. Specificammo inoltre che ci sembrava idiota parlare di prigioni del popolo, che era come ammettere di essere a capo di un sistema di repressione parallelo. Di essere uguali al nemico. A fine pasto ci chiesero: «Ci sosterrete?» «No!» risposi. «Non ci pensiamo nemmeno!»”. 

È chiaro che qui si tratta del volto confessato di un’intera epoca il cui destino risulta inestricabilmente innervato in quello del protagonista italo-francese e dei compagni di movimento; ed è Camelia, l’ultima ragazza slava incontrata, che dà l’estremo scossone per un ultimo passo di autocoscienza dell’identità confessata: “Camelia, ormai, incarnava tutti i peccati di omissione della mia vita. Me li sbatteva in faccia”. Nel pieno degli anni della “militanza a tutti i costi” la confessione cosmopolitica − disarmata e disarmante – di un peccato di omissione! Gli è che nella confessione che Bignami ci partecipa ci raggiunge quella di un’intera epoca e di un intero universo umano: è la confessione di un io che cerca di proferire – secondo la sovreminenza di un’altra polis −  l’accenno di un “noi” nel segno di un destino … comune. Siamo agli antipodi delle vie delle utopie, approdati alfine, attraverso quelle della domanda di perdono, sul terreno di tutt’altro regime di pensiero ove s’apre un’altra storia.  Sulla soglia di questo nuovo orizzonte di tutt’altra vita, incipiente in questo mondo di ben altro mondo,  la confessione di Rebecchi proferisce “politicamente” − come propri ma altrove legittimati − il nome e la volontà di quel Padre unico, invocato come “nostro” e pregato nella e dalla carne – come in un soffio: “…«Venga il Tuo Regno, sia fatta la Tua volontà» bisbigliai e, lasciandomi andare, giudicai che il resto sarebbe venuto da sé”. La confessione di Bignami/Rebecchi approda al giudizio secondo la ragione di una identità tutta sospesa a questa, carnalmente incontrata, Signoria: il Padre, nome confessato da/di un mondo e di un decennio decisamente prodigo; e sia! Il vitello grasso dopo ghiande e carrube … Nella confessione di Rebecchi/Bignami lupi e cani randagi trovano il Padre, la Sua Signoria e l’intera umana Sua Filiazione.

Si sta coi piedi per terra in questo libro e coi piedi per terra ci si confessa in corpo e anima, in carne ed ossa. Viene in mente, concludendone la lettura – libro bellissimo e duramente avvincente! – una chiosa che traggo dalla vita sofferente di E. Mounier: “È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce; se occorre soffrire è solo “perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”… Grazie Maurice.