Secondo di tre articoli dedicati dall’autore al tema dell’omosessualità. Il primo, L’amore ha vita breve, è uscito il 25 maggio.

Il tema dell’omosessualità, affrontato con una ragione aperta all’esperienza – secondo quanto ci ha invitato più volte a fare Benedetto XVI -, presenta molti spunti significativi che un affronto ideologico della questione lascerebbe inespressi e sepolti sotto le urla del più forte. 



In effetti noi non sappiamo perché alcune cose accadano, ma più il tempo passa più è evidente che ogni circostanza della vita collabora alla maturazione del soggetto, a svelare il compito di ognuno nella storia. Se questo è vero per i fatti che succedono fuori di noi, è ancora più vero per ciò che avviene dentro di noi. Tra attrattiva e desiderio trascorre un istante, ma in quell’istante c’è un abisso. Nessuno di noi è padrone delle proprie attrattive: esse accadono, sono dati spesso misteriosi, e come tali vanno accolti e, soprattutto, giudicati. Un’attrattiva che, al contrario, venisse pedissequamente seguita, senza essere valutata criticamente dalla persona, si configurerebbe come una forza cieca e invincibile – un istinto meramente animale -, mentre invece ciò che ci “fa” uomini è proprio il fatto di possedere una dimensione interiore capace di esaminare e orientare le nostre attrattive fino a trasformarle in desideri consapevoli e costruttivi. 



In questo senso l’attrattiva omosessuale ha bisogno davvero di essere giudicata per diventare un fattore umano di costruzione della personalità e non rimanere un elemento istintivo che “accade” nell’Io dell’individuo. Ma come giudicare una simile attrattiva? Quali sono gli elementi determinanti un giudizio davvero “laico” su un impulso di questa specie? Potremmo individuare tre criteri semplici per orientare la persona alle prese con una simile esperienza. Anzitutto il corpo. La nostra corporeità, infatti, rappresenta un oggettivo suggerimento per definire la nostra stessa identità. Oggi è in voga un’ideologia – denominata del “gender” – che vorrebbe porre l’identità tra le opzioni di scelta dell’individuo. Ciascuno potrebbe, in questo modo, scegliere fino a ventitré tipi di identità diverse, indipendentemente dalle proprie connotazioni corporee. Ma il corpo non è un qualcosa di accidentale o di variabile: esso è un dato evidente attraverso cui noi riceviamo l’indicazione di una strada. La genitalità, quindi, non è qualcosa di strumentale finalizzato al puro raggiungimento del piacere, ma è il suggerimento oggettivo che la natura ci offre per mostrarci la strada della nostra felicità. 



Oltre il corpo, tuttavia, sussiste un secondo elemento fondamentale per giudicare l’attrattiva omosessuale: si tratta del vissuto storico della persona. Ognuno di noi ha una storia. Lungo questa storia, per i fatti che si succedono fin dalle origini remote del nostro Io, si sviluppano certe situazioni in cui emerge l’esperienza del benessere e altre in cui non ci sentiamo sinceramente a nostro agio. 

Diventare consapevoli delle une e delle altre ci aiuta a comprendere l’origine culturale e psichica delle nostra pulsioni e a orientare ed educare le emozioni e i sentimenti dentro il contesto della nostra storia, senza inutili assolutizzazioni o improprie generalizzazioni. 

Infine c’è un terzo elemento che può guidare senza forzature la valutazione del singolo rispetto all’attrattiva omosessuale: il Magistero della Chiesa. Sembra assurdo invocare un simile criterio come “laico” e consigliabile a tutti, ma il Magistero − a meno che non si voglia essere ideologici o qualunquisti − conserva l’esperienza della Chiesa, ciò che la Chiesa ha imparato lungo i secoli per vivere davvero umanamente il tempo e la storia. Esso è quindi patrimonio dell’umanità, voce di quel passato che solo le persone ignoranti non desiderano ascoltare per capire ed assumere il presente. In particolare la saggezza della Chiesa, che apprende le cose attraverso il rapporto vivo col Signore Risorto, ha sempre ravvisato nell’uomo una ferita, il famoso “peccato originale”, che porta ciascuno a desiderare anche cose non buone o intrinsecamente cattive. 

Tra queste la Chiesa ha catalogato “i comportamenti omosessuali” in quanto espressione di un desiderio di bene che la genitalità vissuta secondo lo schema gay o lesbo non può soddisfare. Questo profondo convincimento del Magistero non deriva semplicemente dalla Sacra Scrittura, non è volontà cieca e senza ragioni di un Dio che ha deciso che così debbano andare le cose, ma è un “fiore” dell’esperienza umana, qualcosa che uomini e donne del passato hanno imparato sulla propria pelle fino − appunto − a diventare dato del Magistero. Sono persuaso che molti rimarranno infastiditi dal fatto che questi tre criteri − corporeità, vissuto psichico e Magistero − applicati al tema dell’omosessualità ci restituiscano un giudizio negativo su tale attrattiva. In un certo qual modo avverto già le proteste per l’ingiustizia di una simile valutazione, ma preferisco rispondere indicando un altro elemento che sorge della saggezza della Chiesa: non esiste un unico modo per esprimere un’attrattiva e, se trasformare l’impulso omosessuale in un comportamento gay o lesbo è profondamente sbagliato, rielaborare l’energia di un simile impulso − diceva Giovanni Paolo II − può diventare costruttivo per l’identità e la vocazione della persona stessa. 

Una strada di bene c’è. Ma non dobbiamo avere paura di giudicare e di riflettere su ciò che ci troviamo addosso. Ne va sempre, in ogni istante, della nostra felicità e della responsabilità che abbiamo di fronte alla nostra vita. Spesso abbandonarsi ad un istinto o ad una semplice attrattiva è, infatti, il modo migliore per distruggerla e sprecarla, rinunciando a quel ruolo grande che Dio ci ha affidato fin dall’origine della nostra creazione: essere i custodi vigili e attenti del nostro giardino.

 

(2 − continua)