Ogni volta che dalle radure primaverili si leva il vento che annuncia la nuova stagione, un improvviso temporale ci riporta alla crudezza della realtà: il tempo forse non è maturo…
Certo che stanca sentir ripetere ad ogni passo che il problema più urgente per la cultura europea è quello di costruire un nuovo contenitore per la sinistra che ne raccolga ormai le reminiscenze e ne trasformi gli ardori in un progetto: devo confessare che non riesco a capire cosa significhi ricostruire un contenitore di sinistra o una base di sinistra o un partito europeo di sinistra e così via. Credo che il problema, in generale, vada posto in un altro modo.
Ogni popolo, gruppo, collettività grande o piccola, produce i suoi individui guida, più o meno autentici o falsi, ma distinguibili in base ad un criterio molto semplice: da una parte ci sono i mediocri “piccoli io”, come li definiva Wilhelm Reich, che vivono di vessazioni e godono della sofferenza altrui; dall’altro i grandi individui, capaci di allargare l’orizzonte della comunità. Il grande non è né populista né carismatico; è fermo, austero nei principi e soprattutto convinto che tutto ciò che si valorizza attorno a sé contribuisca a dargli valore: non c’è conflitto di valore fra la propri idea di sé e la presenza di altri valorosi intorno. Questa è la mia idea di egemonia: un gruppo di individui di valore capace di offrire una proposta alla società, per governarla insieme a chi ne condivide gli obiettivi. Antonio Gramsci sottolineava l’importanza del rapporto tra il grande individuo e il gruppo, distinguendo tra chi invigliacchisce il gruppo e lo rende ostile, e il coraggio propositivo di chi sente la necessità di rischiare oltre le miserie del quotidiano.
Il moderno Principe non è, come è stato confusamente affermato, una miscela di forza e di astuzia, ma l’espressione di un gruppo che porta in campo un’intelligenza collettiva capace di orientare le alternative possibili e restituire libertà autentica ai cittadini governati. I grandi partiti della storia del nostro Paese, ma anche i partiti europei, sono stati luoghi di egemonia collettiva, proprio per questo non hanno avuto leader carismatici, ma gruppi dirigenti attenti a mediare tra la realtà dura e il sogno di un mondo migliore.
Dopo la guerra, l’orizzonte della ricostruzione è stata una proposta egemonica, perché ha chiamato tutti gli italiani, senza eccezione di partito, a lavorare per ridare le città al popolo. La Francia dopo l’Algeria era un progetto egemonico, l’idea di una nuova patria continentale e l’abbandono di ogni pretesa coloniale nei confronti dei paesi africani. La riunificazione tedesca è stata un grande progetto egemonico, in cui un popolo era capace di esprimere l’ambizione a riunificare i propri territori e le proprie memorie. De Gaulle, De Gasperi, Togliatti, Adenauer, Schröder, Mitterand, sono paradigma dell’individuo di grande statura, che proprio per questo lavora in un telaio di gruppo.
Coloro che hanno cercato di ritematizzare il rapporto tra individuo e società, hanno affermato il valore del gruppo e di coloro che ne costituiscono la guida: come sostiene Bion, non è reazionario pensare che si produca all’interno di un Paese un gruppo di lavoro che ne sappia raccogliere le esigenze più profonde; il bisogno di grandezza nella vita quotidiana, che contrasta la falsità mediatica, la falsa comicità e la sguaiataggine, è l’unica risorsa che possa dare slancio al percorso europeo.
Perché non abbiamo il coraggio, a questo punto della vicenda politica, di produrre davvero un moto, al contempo spontaneo e organizzato, affinché nel corpo vivo della società si formino gruppi sempre più intensi e capaci di liberarci − con tutto il rispetto che ritengo dovuto alle persone − sia di Renzi che di Bersani, sia di Barca che di Epifani? Un movimento capace di mettere in moto di nuovo i volti delle nuove generazioni, come quando nei miei ricordi sfilavano il Primo maggio col fazzolettino rosso al collo. Da questa esperienza attuale della mia vita, vorrei dire basta con le sinistre riformiste e quelle rivoluzionarie: c’è bisogno di un’unica grande rivoluzione, una rivoluzione per unire, per creare un fronte. Tutto ciò non significa affatto un’omologazione indifferente di posizioni diverse, magari opportunistiche; vuol dire, al contrario, far emergere l’universalità autentica, che non sopporta pregiudizi di sorta, neppure dei partiti. Un’universalità in cui l’appartenenza è segnata dal cordone ombelicale col genere umano, di cui si è chiamati a rappresentare l’istanza di vita. Non vivere per sopravvivere, ma sopravvivere per gustare una nuova visione della vita, in cui sia possibile contrapporre chi assume la dignità del lavoratore come principio regolativo delle proprie scelte e chi invece tenta di riempirgli il cervello con immagini di denaro e di ricchezze, come ha ben affermato Vittorino Andreoli.
Non la fine del conflitto, dunque, ma un altro modo di concepirlo, in cui la posta in gioco è sempre alta e il comune nemico è lo spirito rapace e mediocre di chi non vuole oltrepassare la soglia del proprio piccolo orto. Se schiettamente ci misuriamo con l’egemonia, dovremmo concludere che le beghe sui processi di Berlusconi, sulla corruzione dilagante, sul malcostume e sulla trasgressione permanente della legge, sono un’aria ostile da combattere ma anche una riserva indiana in cui si consumano le ultime provviste prima della scomparsa nella notte dell’inverno. Dico basta a Berlusconi non certo per assolverlo, ma per non dare a Cesare quello che non gli appartiene; così come dico basta a Monti e devo confessare le mie riserve su Enrico Letta, con la sua aria permanente di passionista dimenticato nel convento. Il furore è della gioventù, quella che è ancora capace di vincere i campionati e che dovrebbe mobilitare tutte le energie possibili verso nuove e schiette egemonie.
Il livello della sfida non è quello di un aggiustamento contabile del debito pubblico, ma quello costituente di un grande momento unitario dell’Europa, che ritrovi nella propria storia e nelle proprie risorse la materia per poter continuare ad identificarsi come una società ricca di tradizioni diverse e di culture particolari e al contempo unita dal rispetto di alcuni principi fondativi della convivenza. In tutte le epoche storiche in cui l’Europa, nonostante le guerre civili e le lacerazioni fra gli Stati, ha rappresentato un punto di riferimento per l’intero occidente, lo spirito europeo si è incarnato in grandi movimenti culturali come il Rinascimento italiano, l’Illuminismo francese e il Romanticismo tedesco. L’Europa è stata patria di una storia ed una memoria, per certi aspetti terribile, di guerre civili e di violenze inaudite, che ha realizzato alla fine un originale meticciato, in cui diverse tradizioni hanno creato un’esperienza di apertura e di accoglienza. La capacità di integrare la singolarità di ogni vicenda e l’universalità della prospettiva umanistica è il cuore della tradizione europea, che può motivare un nuovo slancio vitale verso il futuro.
Proprio come un secolo fa è stata pensata politicamente la ricerca storica in Francia, dando vita alla grande tradizione degli Annales, c’è oggi un enorme bisogno di storia, non come inventario di avvenimenti ma come ricostruzione di un percorso doloroso, per trasformare anche le differenze in una risorsa d’identità. Lo spirito dissolutivo dell’identità storica è stato fortemente alimentato dall’offensiva neoliberista che ha abbracciato tutti i campi della politica e dell’economia; riprendere in mano il filo della storia significa esprimere un giudizio sul fallimento del neoliberismo e sul carattere meramente ideologico del primato dei mercati sulla vita dei popoli. La declamata fine delle ideologie ha significato l’avvento di una nuova ideologia apologetica del capitalismo selvaggio, bisogna quindi analizzare il carattere politico della globalizzazione, che non è un dato economico inevitabile nelle forme e nei modi che ha assunto, ma un progetto di subordinazione di grandi parti della società al dominio di gruppi finanziari extranazionali, che cercano di rendere la produzione di ricchezza sempre più indipendente dall’economia reale. Marìa Zambrano, poco dopo la seconda guerra mondiale, prefigurava una lenta agonia dell’Europa, qualora si fosse incentrata esclusivamente sulla sfera economica e del mercato.
Negli scorsi anni c’è stato solo un momento, durante la discussione sulla cosiddetta costituzione europea, in cui è stato posto il problema delle radici culturali comuni, da quel momento non si è fatto alcun tentativo di costruire le condizioni per una cultura europea che non fosse fondata soltanto sulle convenienze economiche; anche il Mediterraneo è scomparso dall’orizzonte politico, se non come confine invalicabile per i migranti, e il rapporto fra l’Europa e i paesi della primavera araba è solo la prova di un persistere di egoismi nazionali e di pretese di dominio economico. L’Europa della troika e della commissione, appare come un’istituzione lontana e priva di legittimazione che, in virtù di poteri non dichiarati pubblicamente, decide sulla vita degli Stati costretti a chiedere aiuto per non fallire.
Perché oggi un giovane italiano, spagnolo o tedesco dovrebbe sentirsi motivato ad impegnarsi per l’unità dell’Europa, se questa si presenta come andamento delle borse e dello spread, immobilismo sui problemi più drammatici dell’occupazione e della tutela dei più deboli? Un’Europa frigida, fatta solo di commissioni e di banche centrali, istituzioni neppure democratiche, senza alcuna cultura che animi davvero uno spirito europeo, capace di ridare identità ideale a chi è costretto a fare l’esperienza della povertà.
Se vogliamo costruire realmente l’Europa non dobbiamo soltanto liberarci delle restrizioni economiche, imposte a chiunque chieda l’aiuto europeo, ma dobbiamo creare le condizioni perché si formino aggregazioni politiche davvero europee; sindacati che superino la ristrettezza dei confini aziendali e sviluppino una politica comune del lavoro e dell’occupazione; rapporti interculturali e interreligiosi che rimettano al centro dell’esperienza comune anche la dimensione del sacro e del trascendente. La laicità della tradizione illuminista dovrebbe consistere nell’apertura e nell’assenza di pregiudizi verso chi è portatore di altre esperienze e non già nell’imposizione tecnologica di un sapere asettico, privo di alcuno sfondo umano come orizzonte condiviso.
Un mondo dove il lavoro sia preminente non è una questione puramente economica ma una riproposizione del rapporto tra il terreno quotidiano degli esseri umani e il terreno della loro storia. Lasciamo perdere i dotti che continuano a discutere sull’impasto teologico-messianico della nostra Europa, apriamoci invece a un pensiero mite e fraterno, piccolo e grandioso come quello che Papa Francesco ci mostra e che Giorgio Agamben ha in modo così eccellente messo sotto ai nostri occhi.