C’è un fenomeno interessante che sta emergendo e al quale bisognerebbe prestare molta attenzione: in Italia sono sempre di più i giovani che invece di aspettare il lavoro se lo inventano. E se lo inventano dove meno te lo aspetti: nell’ambito della cultura. Lo conferma la riuscita del recente bando lanciato da dieci fondazioni ex bancarie, con Cariplo a far da capofila. Un milione di euro destinato a 15 organizzazioni e associazioni non per finanziarne un progetto ma per premiarne e faciltarne un percoso di consolidamento. Perché possano diventare a tutti gli effetti delle imprese. 



Visto il successo, non solo numerico ma soprattutto qualitativo, il bando è stato rilanciato anche per il 2013 (si possono presentare le candidature entro il prossimo 15 luglio). Quello delle 10 fondazioni non è stato l’unica “call” in campo culturale: come documenterà nel numero di luglio il mensile Vita, in questo 2013 c’è stata una vera corsa a rispondere alle opportunità di vedersi finanziati percorsi verso la costituzione di imprese culturali. Prima il bando cheFare, poi la call di Fondazione Accenture, infine quella di Fondazione Unipolis. Tutte si sono chiuse con adesioni al di sopra delle più rosee aspettative. 



Cosa significa questo? Che in ambito giovanile c’è chi sta pensando di provare a mandare a rendita il patrimonio di conoscenze accumulato in anni di studio. Cioè di provare a coniugare le due leve: quella economica e quella culturale. I risultati si vedranno, ma il dinamismo è interessante e va in ogni modo favorito. 

Non è un caso che tutti i bandi, a partire da quello delle fondazioni, si caratterizzino per un salto di qualità: non si premia più il miglior progetto, ma le migliori idee di impresa. Cioè si punta a incoraggiare investimenti che mettano radici e che garantiscano non visibilità momentanea ma occupazione duratura. 



Certo restano aperte tante questioni, a cominciare da una facilitazione normativa che sarebbe essenziale; ma manca in Italia anche uno statuto dell’impresa culturale, a cui il legislatore sta lavorando e su cui di devono stringere i tempi. Del resto l’ideatore di fUNDER35, Marco Cammelli (presidente della Commissione per le Attività culturali di Acri, l’associazione delle fondazioni) ha annunciato che le Fondazioni stanno preparando un piccolo dossier di misure utili da presentare al governo. «Quella culturale è un’impresa “polisenso” come qualsiasi ente di produzione di servizi. È una realtà matura che va riconosciuta: non è più semplice attività del tempo libero», ha spiegato. 

Sono valutazioni che corrispondono alla realtà: infatti uno dei fattori sorprendenti di questo fenomeno è anche la sua capacità di innovazione. Quando si pensa ad un’impresa culturale oggi non si pensa più a un qualcosa che subentri allo Stato laddove lo Stato non può arrivare. Non ci sono ad esempio proposte per imprese che si professionalizzino nelle guardianie di musei o nel gestirne i servizi. Il profilo delle nuove imprese è molto diverso e cerca di rispondere a domande di un pubblico nuovo o di inventare servizi che non esistevano ma che combinano possibilità di profitto e benessere delle comunità. Perché l’idea che la cultura sia un giacimento dal quale attingere è un’idea sbagliata quanto quella di chi pensa che con la cultura non si mangi. La cultura è un patrimonio; ma il patrimonio è lettera morta se non viene valorizzato da un investimento umano, se non viene trasformato in esperienza interessante e coinvolgente per gli uomini di oggi. Nel dna di queste nuove imprese c’è proprio la vocazione a rendere vivo il patrimonio, di restituirlo in forme creative alla sensibilità del nostro tempo.