Con questo libro di inediti uscito per i tipi di Abscondita, sono ormai trentun anni (una vita!) che mi occupo di Sironi. Da quando, nel 1982, ho scritto della sua opera monumentale per il Palazzo di Giustizia di Milano, a oggi in cui pubblico questa sua antologia di scritti dimenticati, non ha mai smesso di affascinarmi la sua arte drammatica e potente, che parla del dolore della vita, ma esprime anche un sentimento di grandiosità. 



È un sentimento che si può tradurre in una forma perfino di speranza. Ma sì, di speranza. E adesso cerco di spiegare perché.

È singolare che la nostra epoca veda nelle città sironiane solo desolazione, e coltivi invece il culto dell’impressionismo, giudicato un’arte gradevole, rasserenante o, come oggi si ama dire, solare. In realtà il mondo di acque e fiori dipinto da Monet e compagni vive la durata di un attimo fuggente: presuppone quella brevità, quella provvisorietà della bellezza su cui hanno pianto i lirici di tutti i tempi. Nei quadri di Sironi, invece, la durezza delle pietre, le case senza gerani alle finestre, le città senza giardini, senza alberi, senza il refrigerio di un fiume, esprimono un’idea di eternità. La loro drammaticità è compensata da una potenza costruttiva classica, capace di erigere monumenti più perenni del bronzo.



Nulla fugge, nulla è breve nella visione di Sironi. Tutto trasmette un sentimento di solennità, certo non accattivante come un campo di papaveri o un viale alberato (“L’arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza” diceva lui stesso), eppure animato da un’energia che non si esaurisce, da una vita non destinata a finire. E che cosa dà più speranza all’uomo (o, visto che la speranza è una virtù teologale ed è un dono di Dio), che cosa dà più forza all’uomo che pensare non all’attimo, ma all’eternità?

La vita non ha risparmiato a Sironi le esperienze drammatiche: prima la perdita del padre a tredici anni, le ricorrenti crisi di nervi, la guerra; poi, nell’immediato dopoguerra, quando aderisce al fascismo, la povertà: la moglie Matilde ricordava che quando aveva dipinto uno dei suoi Paesaggi urbani più belli, quel giorno avevano mangiato in tutta la giornata un uovo in due. E, ancora, le aspre polemiche sulla sua pittura; con la caduta del fascismo il crollo di tutti i suoi ideali politici, un’esecuzione sommaria evitata in extremis (dopo il 25 aprile sta per essere fucilato per la strada, a Milano, e si salva solo per l’intervento di Gianni Rodari, partigiano ma suo estimatore), le umiliazioni e l’emarginazione; infine la perdita della figlia Rossana, che si uccide a diciotto anni nel 1948.



Eppure nelle sue opere più alte non manca mai quel senso di grandezza che suggerisce anche a noi di non abbatterci di fronte alle prove della vita. Non so voi, ma a me non è mai capitato di non sentirmi depressa di fronte a certe visioni della vita tutte rose e fiori che per reazione mi fanno pensare al titolo di un saggio americano, Se la vita è un piatto di ciliegie, perché a me solo i noccioli? E invece non mi è mai capitato di avvicinare un capolavoro di Sironi, che certamente non indora la pillola, senza attingerne un senso vivificante di energia. 

Ma vediamo le sue opere più da vicino. Sironi è stato, con De Chirico, il maggior pittore di architetture del Novecento. Per lui, anzi, la pittura coincide con l’architettura: non perché rappresenta degli edifici, ma perché edifica delle forme.

L’esito più alto e insieme l’emblema di questa sua concezione sono i paesaggi urbani, che nascono nel 1919, nel periodo in cui l’artista si stabilisce definitivamente a Milano. Le sue Periferie sono appunto architetture compatte, potenti, simbolo di una radicale volontà costruttiva, di una ritrovata capacità di dipingere forme compiute dopo le scomposizioni e le frammentazioni delle avanguardie. Per questo sono prive di quegli elementi leggeri, irregolari, volatili (nuvole, foglie, fiori, erbe, acque) che avevano contraddistinto le città dipinte dagli impressionisti, come pure di quegli elementi dinamici, di quel movimento che dissolveva figure e cose, che avevano contrassegnato le città dipinte dai futuristi.

Occorre però non equivocare sull’asprezza della pittura sironiana. L’uomo non compare, nelle sue città, non soltanto e non tanto perché Sironi vuole esprimere la solitudine della città contemporanea (l’uomo era solo già ai tempi di Adamo), ma perché ha in mente un orizzonte più vasto dell’io. “Anche se noi non fossimo l’universo sarebbe eterno, la materia sarebbe eterna. E questo eterno è Dio” scriverà anni dopo. Per questo le sue case di periferia hanno la nobiltà delle cattedrali.

In questo senso può esserci d’aiuto una pagina del 1920 di Margherita Sarfatti, che delle Periferie sironiane è stata la più precoce esegeta. Vale la pena di analizzare le sue parole, perché la sua lettura non nasce solo dal suo intuito critico, ma anche da una conoscenza diretta dell’artista, dalle discussioni fra pittori e intellettuali che si accendevano nel suo salotto. Ed è una lettura in cui Sironi si riconosceva, vista la continuità e l’intensità del sodalizio che stringe con la scrittrice. Sironi, osserva dunque la Sarfatti, “da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre… una bellezza e una grandiosità nuove”. E conclude: “È lui l’artista che ci insegna a scorgere, nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta: luxe, ordre et beauté”.

Mario Sironi, Scritti inediti (1927-1931). A cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano 2013