Fin dalla loro comparsa, sia i romanzi che i racconti di Franz Kafka suscitarono ben presto nei lettori un notevole interesse ma al contempo un perturbante sconcerto; quasi fosse impossibile non provare insieme attrattiva e ripulsa nei confronti delle sue storie, senz’altro avvincenti però anche criptiche, labirintiche e all’apparenza davvero indecifrabili. Non a caso, ancor oggi, parlando di vicende kafkiane alludiamo a circostanze non solo aggrovigliate ma pure assurde o surreali; a situazioni che inoltre sembrano prive di sbocco e ci fanno rimanere senza parole proprio perché, destabilizzandoci, inquietano.



Cercare di tradurre il linguaggio enigmatico di Kafka, rinvenire il filo che permetta di trovare l’uscita dal suo sconcertante labirinto narrativo: ecco l’intento che ha sempre animato quanti hanno cercato di risolvere il segreto/mistero della sua narrativa, o meglio ancora – utilizzando un’espressione tratta dal libro Le carte truccate di Franz Kafka (Erickson, 2013) della germanista Maria Rosa Franzoi Del Dot – tutti coloro che si sono impuntati a “cercare la verità custodita dietro un muro di parole”. Eppure siffatti sforzi si sono più o meno rivelati vani e ingannevoli, come gli indizi che lo scrittore praghese di lingua tedesca ha disseminato nei suoi scritti: non già per aiutare il lettore bensì per depistarlo. Come risolvere il problema, allora, se non si intenda arrendersi di fronte all’enigma della prosa kafkiana?



L’autrice del saggio non ha dubbi. Secondo la sua inedita/provocatoria ottica interpretativa il lettore deve avere il coraggio di una “disobbedienza”, per la quale Kafka rappresenta un’occasione esemplare. Così l’autorità alla quale dobbiamo negare il consenso è lo stesso linguaggio dello scrittore. E ciò perché quest’ultimo “è in grado di nascondere il messaggio, di celare la verità che in esso è depositata, solo nella misura in cui il lettore gli cede, si riconosce in esso, si vede riflesso nella situazione dei suoi personaggi”. Negare il consenso a tutto ciò, infatti, significa opporre una scaltra diffidenza rispetto alle “chiacchiere” kafkiane paludate da ragionamenti. Comporta altresì squarciare il velo del fondale di un vero e proprio teatrino illusionistico. Significa infine comprendere come quasi sempre i lettori (ingenuamente) finiscano per far loro il medesimo linguaggio e/o gli stessi schemi concettuali dello scrittore e dei suoi personaggi.



Solo così sarà possibile una buona volta scoprire le carte truccate del Nostro, abitare i suoi paradossi senza finire infilzati nell’uno o nell’altro corno delle sue solo apparenti alternative; risolvere, insomma, l’enigma Franz Kafka. 

Per dimostrare la propria tesi la Franzoi Del Dot esamina soprattutto due testi della trilogia romanzesca kafkiana: America e Il processo, analizzando però, sia pure in modo meno circostanziato, anche Il castello, nonché alcune significative prose brevi, fra le quali soprattutto La metamorfosi ossia la notissima storia del giovane trasformatosi all’improvviso in un insetto. Ciò su cui forse vale la pena soffermarci è come, puntualmente, sempre due siano gli ambiti privilegiati nel gioco delle carte letterarie di Kafka. Il primo è costituito dal romanziere, il secondo dal lettore. La partita è rappresentata dal testo e le “carte” ingannevoli dai personaggi e dalle loro vicende, che mettono in atto un’autentica trappola narrativo-cognitiva. Ma ecco il consiglio per uscire indenne da un tale tranello.

Il lettore dovrà modificare radicalmente il proprio atteggiamento riguardo al testo, immaginandosi quasi fosse a teatro: “spettatore che assiste a un dramma muto il cui significato sia affidato unicamente alla composizione delle scene e alla mimica dei personaggi”. E ciò per rendersi conto di come la scrittura kafkiana implichi un doppio registro, basato in parte su un processo narrativo apparentemente logico e coerente, in parte sul linguaggio dell’inconscio: che è poi quello utilizzato per velare/rivelare la verità celata dietro la finzione d’un discorso raziocinante – mi si conceda il gioco linguistico – solo a parole.

Niente come un’attenta analisi de Il processo permette di scoprire le carte truccate di Kafka. A una lettura superficiale, infatti, rimane frustrato chi cerca di individuare quale sia la trasgressione per la quale è indagato il protagonista o di decifrare i rituali incomprensibili del tribunale delle soffitte, dove si muovono eccentrici funzionari, magistrati e avvocati, tutti presi dai loro irragionevoli formalismi/barocchismi, cui prestano un’attenzione/soggezione estrema. Mentre si legge l’inedito processo kafkiano, pare di assistere a una farsa straniante. A una presa in giro dell’istituzione giudiziaria, a una irrisione del diritto, che qui non ha dimora. Ma la giustizia, esiste davvero nella realtà? – sembra suggerire lo scrittore -. È mai possibile praticarla? Così l’unica colpevolezza, comune un po’ a tutti i personaggi di questo romanzo esemplare, è quella del servilismo/perbenismo, è l’inautenticità o l’incapacità di liberarsi da ruoli e modi di porsi artefatti, manipolatori, stereotipati. Ma allora – al di là delle mosse e contromosse degne di una partita a scacchi giocata tra il protagonista e il surreale (ma non troppo) tribunale che lo accusa senza precisar di cosa – la vera colpa di Josef K. è giusto l’insincerità, in primis nei confronti di se stesso. O appunto il non riuscire a cogliere dove stia il male da cui è indispensabile egli si emendi per poter tornare libero di svolgere una vita autentica. Ma ciò non avverrà, perché K. si ostina a proclamarsi innocente non essendolo. Quindi finirà condannato e messo a morte. Fuor della metafora, verrebbe da dire: soccombe chi non s’accorge dell’autoinganno a cui troppo docilmente si consegna, rendendosi colpevole d’una esistenza ignava e schiava dei potenti, del tutto alienata e mendace.