Papa Francesco ha ricevuto nei giorni scorsi in regalo l’opera omnia del suo compatriota Jorge Luis Borges (1899-1986), da parte di María Kodama, vedova dello scrittore, per mezzo del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, venuto in visita in Argentina.
La donna e il cardinale si sono anche accordati per tenere a Buenos Aires un incontro culturale su Borges che sarà promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura. Quando Bergoglio era professore di Letteratura e Psicologia nell’istituto Immacolata concezione di Santa Fe, invitò Borges, che stimava, a impartire in quegli anni (1964/1965) alcune lezioni ai suoi alunni e da allora nacque una grande amicizia tra i due.
L’allora cardinal Bergoglio raccontò ai suoi biografi Sergio Rubín e Francesca Ambrogetti nel libro intervista Il Gesuita, oggi diffuso in tutto il mondo, che Borges – anche se ateo – recitava il Padre nostro tutte le notti perché “lo aveva promesso a sua madre” e che il famoso scrittore, riferimento ineguagliabile per la letteratura e la cultura argentina, “poteva parlare di qualsiasi cosa, senza mai darsi arie” e che “al di là della sua distanza dalla Chiesa, colpiva la serietà e la dignità con la quale viveva la sua esistenza”.
Come ha evidenziato in un suo articolo la giornalista argentina Silvina Premat, “di Jorge Luis Borges si è detto che fu un panteista nichilista, un nominalista, un seguace del platonismo e un agnostico. Finora i critici e gli esegeti del grande scrittore argentino concordano nel rifiutare qualsiasi inclinazione religiosa in lui”.
Biagio D’Angelo (dottore in teoria letteraria all’Università di Studi Umanistici di Mosca, decano e professore della Facoltà di Scienze dell’Educazione all’Università Cattolica di Lima e membro dell’Associazione internazionale di Letteratura comparata), nell’intervista che nel 2007 la suddetta giornalista realizzò per il quotidiano La Nación di Buenos Aires, affermò che Borges fu “un uomo religioso che percepì l’esistenza di un mistero che fa tutte le cose”.
D’Angelo, riferendosi alla sua opera Borges al centro dell’infinito, disse in quell’intervista: “Ho provato a spogliare Borges dell’aura di poeta e scrittore totalmente refrattario a qualsiasi tendenza, diciamo così, metafisica, che gli assegna la critica tradizionale”. All’obiezione mossa dalla Premat, che ricordò che lo stesso scrittore si definiva agnostico, lo specialista italiano rispose che “essere agnostico significa ammettere l’impossibilità di conoscere Dio, e questo è qualcosa di diverso dall’irreligiosità […]. L’agnosticismo era in Borges una forma di realismo ontologico; cioè, quello della creatura che sa che mai potrà conoscere Dio. La sua stessa cecità non era solamente fisica, ma anche allegorica. Sembrava dire: ‘Io non potrò vedere Dio, lo vedrò solo dopo, quando troverò gli archetipi, gli splendori sacri’. L’agnosticismo in Borges, secondo me, è una forma di umiltà del poeta.
C’è in lui la percezione di un mistero che fa le cose; persino quando lo nega, nella sua opera mantiene una relazione drammatica con questo mistero. Che si chiami Dio o Aleph è lo stesso. Considero l’aspetto religioso l’ultima spiaggia della ragione, e Borges, che è un uomo eminentemente ragionevole, intuì che l’ultimo lavoro di questa è percepire il mistero dell’universo. Questa sorta di religiosità in lui si unisce con quello che potremmo chiamare un punto di fuga: il riconoscere che nella percezione umana c’è qualcosa che sfugge a ogni schema, ma senza cui non si può giustificare l’esistenza delle cose, nemmeno la propria. Borges disse in un’audizione radiofonica: ‘Ho dubitato di Dio, ma non del suo volto’. Significa che non ha dubitato della carnalità di Dio. È come se avesse detto: ho dubitato di Dio, come si dubita di qualunque filosofia, ma mai del suo volto, della possibilità di toccare il suo viso, della sua materialità. Penso che gli piacesse Shakespeare perché è concreto: parla del mistero della vita, di Dio come di un atto concreto”.
Quando la giornalista gli ricordò l’incursione di Borges nella filosofia buddista, D’Angelo precisò: “Borges diceva che non era un filosofo, e aveva ragione, perché il filosofo ha un’idea sistematica dell’universo e questo non è il suo caso. I suoi racconti sono come variazioni su uno stesso tema: la ricerca, presente nei dialoghi con la sua tradizione, con la famiglia e i suoi antenati e con altri poeti, scrittori e pensatori che lesse e che hanno percepito la stessa cosa che sentiva lui. È uno dei pochi autori che unì Oriente e Occidente con l’idea, probabilmente utopica, di una religione dove tutte le religioni siano presenti. Si relaziona al buddismo nel suo tentativo umano di spiegare l’universo e la realtà”.
Alla domanda della Premat se Borges avesse trovato una risposta alla sua ricerca, l’italiano rispose: “Non posso dire che l’abbia trovata, ma che aveva un’intuizione. Da lettore, mi piace Borges, perché mi permette di continuare questa ricerca e perché la sua percezione della realtà è destabilizzante e per niente borghese. Dopo aver letto Borges, uno non può porsi di fronte alla realtà come se tutto fosse normale o scontato. Non mi piacciono gli scrittori che sembrano avere la realtà in tasca e la rivelano. In Borges c’è una ricerca, e sembra dire al lettore: vieni con me”.
D’Angelo concluse rispondendo all’intervistatrice sul senso del destino e della speranza in Borges: “La cecità sarebbe il suo implacabile e brutale destino. Accettare quel destino significa fare poesia. Il destino è crudele, ma non la ricerca, che permette di godere della vita. Altrimenti, per esempio, non avrebbe fatto un viaggio nell’antica Grecia quasi alla fine della sua vita. La figura di María Kodama al centro del labirinto è un allegoria della speranza. In una delle sue ultime poesie scrive che il punto principale del labirinto non è l’uscita, ma il centro; cioè ciò che genera il labirinto. La vita è allegoricamente un labirinto e il centro è fondamentale. E Borges dice: lì, nel centro, c’è María Kodama. Cioè, una presenza positiva e non la disperazione. Non saprei dire se lì c’è posto o no per la speranza, ma io spero nella speranza di Borges. Lui mantiene la speranza di scoprire una risposta. In nessun momento smette di cercare. In un poema del Cuaderno San Martín dice: ‘Mistero di cui possiedo il nome vacante, e la cui realtà non capiamo’. Dio è un nome vacante e lo posso chiamare come voglio”.
La ricerca del senso della vita, espressa tanto nella sua opera come nel suo impegno esistenziale (che ha richiamato l’amichevole attenzione dell’attuale successore di Pietro) fanno di Borges non un uomo di fede, ma senza dubbio un uomo profondamente religioso.