Siamo rimasti tutti colpiti dal gesto inatteso del coreografo turco Erdem Gunduz che è rimasto in piedi per sei ore, solo in mezzo a piazza Taksim, di fronte al grande ritratto di Kemal Ataturk; il suo gesto muto, che non si imponeva in nessun modo e che infatti è rimasto per ore inosservato, è risultato alla fine così sconcertante da diventare sensazionale, e da generare un’ondata di imitazione in tutto il paese.



Ma, al di là della commozione di fronte a un gesto «bello», quali possibilità reali ha una cosa del genere? Cosa può cambiare nella situazione politica di un paese un’iniziativa puramente simbolica come questa, senza programma, senza contenuti politici, che nasce e muore in un breve spazio di tempo? Di gesti simili ne conserviamo altri nella memoria, come quello grandioso dell’uomo di piazza Tienanmen, che nel 1989 tenne testa da solo a una colonna di carri armati. Certamente, nonostante la loro fragilità, questi gesti hanno dentro un’incredibile forza simbolica, e lasciano un segno per la forza di un’oggettività misteriosa che nessuna interpretazione politica può, a posteriori, manipolare.



Questa oggettività riguarda l’uomo, che attraverso questi gesti all’improvviso, nelle circostanze meno propizie, mostra di esistere a dispetto di regimi, polizia, paure, egoismi e persino dell’istinto di autoconservazione. E non solo mostra di esistere, ma si pone pubblicamente come il sassolino che fa deragliare il treno, come quell’ultimo baluardo che neanche il più possente e impersonale dei sistemi può vincere. Quando succedono questi fatti è come se si riportasse ogni questione al suo vero punto d’origine: l’uomo come motivo e scopo dell’agire politico. 

Si è detto, ed è in parte vero, che Erdem Gunduz ha inventato una nuova forma di protesta, inerme e affascinante. Ma la cosa sorprendente è che questa stessa forma dell’«uomo in piedi» la ritroviamo quasi identica in un episodio lontano avvenuto nel Gulag, la coincidenza evidentemente nasce dal fatto che lo «stare in piedi» manifesta in qualche modo una dimensione profonda dell’animo. Ha tramandato la memoria di questo episodio una poetessa, Elena Vladimirova, oltre diciotto anni passati in uno dei lager più tremendi dell’Unione Sovietica, le miniere d’oro della Kolyma.



Racconta Elena che durante i trasferimenti a piedi, i soldati di scorta facevano spesso accucciare i detenuti nel fango o nella neve, più per scherno che per necessità, ma un giorno «tra di noi accovacciati/ ci fu uno che al comando/ restò in piedi/ anche se sapeva le regole/dettate per le marce./ Stava lì in piedi come non sentisse/ così semplice e dritto./ Calmo, diritto e semplice/fra gli altri accovacciati,/ stava quest’uomo in tutta la statura… L’uomo di scorta prese la mira./ “Siedi! – gridò – hai sentito?/ Siedi!” ma lui non si sedette».

E in un silenzio di tomba, alla fine il soldato di scorta diede l’ordine: «In piedi!»: il detenuto inerme aveva vinto. La poetessa conclude dicendo che nella sua prigionia ha conosciuto infiniti detenuti, ha fatto infinite marce e subìto infinite umiliazioni, ma quell’uomo, di cui non sa neanche il nome, le è rimasto impresso per sempre come «l’uomo in piedi». A cosa è servito questo infinitesimale gesto di resistenza, e tanti altri infinitesimali gesti di cui non è rimasta traccia? Possiamo rispondere con le parole di un’altra donna russa, Nadezda Mandel’stam, vedova di un poeta morto in lager: «Che cosa ci ha dato questa maledetta epoca di terrore ferino? …intanto questo, che nonostante tutto sono esistiti degli uomini che sono rimasti uomini». Proprio grazie a questi uomini, e alla loro capacità di non farsi puri vasi d’odio e di vendetta, un settantennale esperimento sociale costato fiumi di sangue è tramontato senza violenza.

Anche in Turchia, a quanto pare, l’uomo in piedi ha offerto un’alternativa agli scontri di piazza che si stavano diffondendo pericolosamente; ha mostrato una dimensione della persona e del cittadino che contraddice la logica dell’odio e della violenza reattiva. E non è cosa di tutti i giorni che queste escalation si fermino. Perché una nazione cambi, diceva il dissidente ceco Vaclav Havel, «il punto di partenza è il cambiamento dell’uomo». La sua è la voce dell’esperienza storica, che oggi, inaspettatamente, si conferma.