In memoria di Gert Mattenklott

In un breve, scritto, composto nel 1915, quando infuria la guerra, dal titolo Caducità, Freud  racconta di una passeggiata “in una contrada estiva in piena fioritura” in compagnia “di un amico silenzioso e di un poeta già famoso, nonostante la sua giovane età”. Il giovane poeta è Rainer Maria Rilke (1875-1926), che ha abbandonato da tempo la sua città natale, Praga, per raccogliersi in più vasti orizzonti, dando prova del suo sguardo sul mondo e del suo dire in numerosi cicli poetici e nel romanzo Malte Laurids Brigge. L’amico silenzioso è invece la bella e affascinante Lou Salomè, che sarebbe diventata a sua volta psicanalista e che era, già allora, amica e confidente di entrambi i suoi accompagnatori.



Il poeta, racconta Freud, “ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa, come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato”. Il lamento e il lutto intorno alla caducità della condizione umana, e la trasformazione di questo lamento nella celebrazione dell’esistenza proprio in quanto effimera, costituisce il tema centrale del ciclo delle Elegie duinesi, composte dal poeta tra il 1912 e il 1922. Cercheremo di vedere ora in alcuni, necessariamente brevi passaggi di questo ciclo, come Rilke arrivi ad affermare che l’essere stati, pur una volta soltanto, non pare essere revocabile. Anzi, come aveva osservato Freud nel suo breve scritto, come proprio la  caducità aumenti il valore stesso delle cose e dell’uomo, che ad esse è legato, e che con esse si scopre amico, familiare, non più estraneo. 



È vero, lamenta Rilke nelle prime due elegie, nulla di ciò che esala dall’uomo nel suo sentire e vivere può essere trattenuto, neppure dall’angelo, cui il poeta rivolge il suo canto, sperando di cogliere, per opposizione, nella sua lontananza e perfezione oltreumana l’autentica natura dell’uomo. L’angelo di Rilke è invece tutto ciò che l’uomo non può e non sa essere, ed è perciò tremendo nella sua perfezione, dice il poeta nella prima elegia. L’angelo, nella sua terribilità, ossia nel suo essere assoluto, è infatti pura energia che non si consuma ma defluisce ritornando a sé stessa, è l’assoluto a cui l’uomo si appella, tende la mano, cerca di rivolgersi, nella speranza che qualcosa del suo svanire sia da esso trattenuto, custodito. 



Ma scopre che così non è. L’uomo evapora come pietanza calda, e più che fuoco è brace che si consuma: “Poiché noi sentendo svaniamo; ah noi/ esaliamo fino ad estinguerci; un legno che di ardore/ in ardore dà sempre più tenue profumo”. Già il respiro è un esalare. “Ahimè”, lamenta il poeta “eppure questo lo siamo“. 

L’uomo è precisamente questo, questo dileguarsi, questo prendere congedo, e nulla sembra serbare traccia di lui. Come può allora l’uomo, si chiede Rilke, esistere, essere, come sono gli alberi, essere nel senso pieno della parola, ossia durare? “Vedi” lamenta il poeta nella seconda elegia “gli alberi sono: le case/che noi abitiamo sussistono ancora. Noi soli/ come aria che si rinnova trascorriamo su tutte le cose/ E tutto in accordo ci tace, metà per/ vergogna forse e metà per speranza indicibile”. L’uomo, che ancora partecipa del visibile, ancora ama, ancora trasforma ed è ancora legato alla terra, reca però in sé anche una “speranza indicibile”. Perché “sembra che abbia bisogno /di noi tutto quello che è qui, l’effimero che stranamente ci riguarda. Di noi, i più effimeri. Una volta/ ogni cosa, soltanto una volta, soltanto Una volta e non più. E anche noi/ una volta. Mai più. Ma questo/essere stati una volta” − che accomuna l’uomo al suo mondo − “seppur solo una volta,/ essere stati terreni, non pare sia revocabile”: “Esser qui è molto”. 

Perché? Perché le cose, dice Rilke, hanno bisogno di noi e del nostro sentire, e rivolgono a noi − i più effimeri − un appello: quello di redimerle, di salvarle dalla scomparsa, custodendole, comprendendole e nominandole così, come esse stesse mai compresero di essere: “Siamo qui forse per dire: casa,/ ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra,/− al più: colonna, torre… ma per dire, comprendilo,/ per dire così come persino le cose intimamente/ mai credettero d’essere”, leggiamo infatti nella nona elegia. Un compito cui solo l’uomo può attendere, nell’unione di cuore e linguaggio: “Qui del dicibile è il tempo, qui la sua patria./ Parla ed ammetti. Più che mai/ vengono meno le cose, quelle da vivere, perché/ quel che le sostituisce e rimuove è un fare senza immagine./(…) Tra i magli resiste/ il nostro cuore, come la lingua/ tra i denti, che tuttavia/ rimane colei che magnifica”.

Quel che solo l’uomo può fare è dunque dire, cantare, mostrare all’angelo l’innocenza e la magnificenza dell’esistenza, delle cose, dell’essere qui, una volta sola, una volta soltanto. “Essere qui è magnifico” aveva detto il poeta già nella settima elegia. “Loda all’angelo il mondo, non l’indicibile (…) Mostragli/ allora il semplice, di generazione in generazione formato/ che come nostro vive, presso la mano e nello sguardo./ Digli le cose. Sosterà più stupito”, afferma il poeta  nella nona elegia. 

“La natura” scriverà il poeta in una lettera a Witold von Hulewicz, nel 1925 “le cose che tocchiamo e usiamo, sono transitorie e caduche; ma fintanto che siamo qui, sono il nostro possesso e la nostra amicizia, sanno della nostra miseria e gioia. (…) Su di noi grava la responsabilità di conservare non solo la loro memoria [(…)], ma il loro valore larico. La terra non ha altra via di scampo che diventare invisibile in noi”, proseguiva, in noi “che partecipiamo dell’invisibile con una parte del nostro essere, noi che dell’invisibile possediamo (almeno) quote di partecipazione”. “Le elegie”, concludeva Rilke “stabiliscono questa norma dell’esistenza: assicurano, celebrano questa coscienza”.