Tutto il cielo possibile, appena edito da Piemme, racconta di una ragazza cocciuta, Adele, e del suo cedere a poco a poco alla – più cocciuta di lei – verità: di se stessa e del mondo a cui, volente o nolente, appartiene. Le capita per caso, attraverso una «strana latteria», di iniziare a saltare in altri tempi. Idea da Ritorno al futuro, che il romanzo di Luigi Ballerini e Benedetta Bonfiglioli infatti evoca: ma sono «viaggi nel tempo» che riguardano ogni volta qualcosa delle radici di Adele, della sua incancellabile storia che è passata ma la sta attendendo: il matrimonio dei genitori, l’iscrizione della mamma diciottenne (Mary, non Maria Vittoria) alla scuola di moda, la sua nascita. E soltanto alla fine la ragazza scoprirà che affondare nel passato «dipende da cosa uno desidera intensamente», perché «la chiave del presente si trova nel passato»



I tuffi nel passato la invogliano a cercare la verità sulla morte di suo padre, a seguire il sospetto che lui sia ancora vivo, 14 anni dopo il 1999. È dentro quei salti che si imbatte nei relitti di epoche che sanno di lontanissimo, sebbene non siano poi troppo remote: le lire anziché gli euro (e come le paghi due pizze, se piombi di colpo nel ’96?), la «cabina telefonica», anacronistica custode dei segreti degli innamorati, il walkman, ingombrante antenato dell’iPod, la Diet Coke (Coca Zero è geroglifico per un barista di qualche anno prima), «un orribile omino stilizzato fatto di tante bandierine bianche, rosse e verdi. italia 90» (però piaceva tanto, in quelle “notti magiche”).



Non si tratta, però, appena di un viaggio tra le macerie di cose finite: se qualcosa «ci spedisce nel passato è perché stiamo cercando qualcosa, desiderando di capire qualcosa nel presente». Ed è il rapporto con la verità, che si delinea man mano attraverso la sua storia, che permette ad Adele di capire se stessa nel presente. Il libro procede giustamente per via narrativa, mai a tesi, ma ce n’è abbastanza per testimoniare, senza bisogno di dichiarazioni di principio, la decisività del passato, e la vertigine quando invece ti accorgi che «niente in questo momento ha radice». A scuola spesso gli insegnanti affermano, durante la prima lezione di storia, che il passato serve a capire il presente: ma è difficile che dopo tutta una storia scolastica lunga tredici anni un ragazzo sappia farti un esempio non retorico di questa incidenza del passato sul proprio presente. Qui il passato invece riformula il presente, ed è una fatica che vale la pena compiere.



Ma l’energia per un salto del genere, per amare il passato senza svilirlo a museo, è possibile ad Adele grazie a un incontro casuale, quello con Lorenzo: «Senza di te non ce la farei». È un rapporto vero, e lo si vede dal fatto che lui non sta appena con Adele, ma con tutto il suo mondo: sua madre, la sua casa, il suo passato. E perché non si ferma reattivamente al carattere scontroso di Adele: «non mi chiede tutte le domande a cui ero già pronta a rispondere con un bel “fatti i cazzi tuoi”. Prende atto di come sono e va avanti. Come se gli andassi bene così, stronza così, spigolosa così». Quando lei piange, «anche se l’ha vista, non commenta la mia lacrima». E poco alla volta la conduce non soltanto al di là del presente, ma più in là di se stessa, o meglio nel suo fondo: «ha due occhi che frugano sul fondo dei miei. Chissà cosa vedono? Chissà cosa trovano?». Lorenzo «fa le cose buone senza chiedere il ritorno, non ti presenta mai il conto», e la diffidenza di Adele si sgretola, perché grazie a lui si accorge di essere molto di più di ciò che pensa di sé: «mi scuote di dosso i miei pensieri».

Sostenuta nella sua ricerca, Adele rintraccia qualcosa che si era persa per anni: innanzitutto lo sguardo di sua madre, quella «luce di vita» che ha smarrito ogni giorno, come se la quotidianità con suo marito fosse stata una sorta di «tossico» (mentre proprio il contrario «dovrebbe essere l’amore»: «far brillare gli occhi»). Un giorno la incontra appena dopo il suo parto, «bella come una Madonna di Raffaello», «che canticchia qualcosa di dolce a bocca chiusa» alla sua piccola, e non trattiene lo struggimento: perché «neanche di questo sguardo mi ricordo»

Poi si invola di verità in verità. Perché non solo segue il suo fiuto fino a trovare davvero suo padre. Ma lo ammira come un eroe: essendosi ammalato, infatti, egli ha deciso di sacrificare se stesso per lei: «Non volevo essere un peso». Non finisce qui, però: perché una domenica, pranzando a casa di Lorenzo, conosce suo fratello Martino, down, e allora si accorge senza troppe dialettiche che «il coraggio è altra cosa, Adele! L’amore è altra cosa!», e che «forse avrebbe potuto essere mio padre ed esserci, semplicemente, per dirmi che mi vuole bene, che sono bella, che grazie a me anche una vita a metà merita di essere vissuta». Glielo vorrebbe gridare in faccia, al padre. Solo che la verità mica si sbatte in faccia. Infatti il padre ci arriva al volo, e dopo anni cambia idea, accettando la tracheotomia: «Mi è bastato vederti per capire tante cose…». La vita viene rovesciata non da un cambiamento di opinioni, ma da certi incontri, semplici e immensi, perché segnati dal surplus dell’amore: sono loro a svelare gli innumerevoli «errori di non amore che scopri solo quando ami».

Qui si gioca la grande partita innanzitutto con se stessi. Lorenzo una volta ha picchiato un suo compagno e un suo professore, perché si era sentito dire «che la vita di un handicappato fa schifo e che non merita neanche di essere vissuta». Ma la sua rabbia non era nata da una presa di posizione pro-life, a difesa del fratello: «“Sai perché mi ha fatto così incazzare?” mi chiede. Intorno a noi c’è quasi silenzio: “Perché una parte di me la pensava come il mio amico”»

Non c’è altra cura, contro questa parte di sé che riduce tutto nel perimetro dei propri punti di vista, che scoprirsi amati. Ne è prova la leggerezza con cui si può guardare la propria storia, senza bisogno di cancellare qualcosa che non va o di cambiare quello che è stato, di sognare impossibili reversibilità o di darsi, ogni tanto, a un rispettoso ma noioso amarcord. Qui il passato, così come è stato, è interessante quanto il presente: non c’è da maledirlo, perché non sono i propri progetti a doversi compiere, e allora non c’è nulla da aggiustare o da incanalare. Esso porta la verità, ma è un abbaglio che chiede tenacia, e che si regge solo dentro un amore. 

Vale per Adele, per suo padre, per Lorenzo, per chi legge il romanzo. Con una condizione, però, grossa come un macigno, e che ci interroga fino al retrocopertina, perché magari un amore l’abbiamo anche incontrato, ma ce lo teniamo ben incasellato nel nostro puzzle. Succede pure, magari casualmente, di incontrare qualcuno che ci ami davvero, ma il problema comincia lì, se alla sua potenzialità rivoluzionaria cediamo oppure ce ne difendiamo: «Cosa credi? Che lasciarsi voler bene sia sempre facile?».


Luigi Ballerini, Benedetta Bonfiglioli, “Tutto il cielo possibile”, Piemme, 2013