La scelta di Papa Francesco di recarsi a Lampedusa, a piangere i morti, come ha annunciato poco prima il suo segretario, ha avuto un enorme valore simbolico, sociale e politico. Il Papa ha scelto di piangere i morti nell'”isola ove approdano gli Ahmed dagli occhi neri, le Dalila dai denti smaglianti e gli Alì dagli occhi azzurri, per dirla con la profezia di Pasolini. Quando riescono ad approdare, quando non vanno a raggiungere i quasi 20mila – bambini compresi – che nel corso degli ultimi venticinque anni hanno abbandonato le loro spoglie agli abissi del Mare Nostrum“, come ci ricorda Annamaria Rivera, autorevole studiosa di migrazioni e del mondo arabo.



In quegli stessi giorni, ancora una volta, i luoghi della cosiddetta primavera sono tornati nuovamente in fiamme, e le misure della partecipazione ad un sommovimento che sta percorrendo l’intero Nord Africa sono enormi. Se, tuttavia, emergono significati creativi e nuove prospettive per le diverse realtà di quell’area, vi è un punto oscuro, piazzato nel cuore del deserto e pronto a esplodere ad ogni momento. È  lì, in questa crepa del tempo, che si annida da sempre la vecchia maledizione della logica amico-nemico; è proprio questa insuperabile ambivalenza che destabilizza continuamente le potenzialità di libertà e costruzione di un nuovo ordine. 



Le proporzioni del fenomeno reclamano un allargamento della prospettiva rispetto a quelle, riduttive, delle questioni interne ai vari stati del Nord Africa. È penoso che i commentatori si accorgano solo in queste situazioni dell’enorme rilevanza politico-strategica che il Mediterraneo ha non solo per il nostro Paese ma per l’intero Occidente; è penosa la totale incapacità degli osservatori internazionali di comprendere l’ira popolare che cova, per poi esplodere in insurrezioni e rivolte. 

Già nell’antichità, assai meno lontana di quanto sembri, Socrate affermava che il Mediterraneo è un lago che coinvolge nello stesso destino i popoli che vi sia affacciano. Negli ultimi decenni, nonostante la retorica della centralità del Mediterraneo, l’Italia e gli altri Paesi europei per miserabili calcoli economici hanno continuato ad appoggiare i regimi autoritari; la mancanza di una politica europea, il marcire nelle tattiche strumentali nella tormentata terra in cui arabi e israeliani si guardano a vista, la complicità dell’Occidente nel disastro umano, politico e sociale, sono frutto di una visione opportunistica che, nonostante i proclami sui diritti umani, ha preferito seguire sempre la via degli interessi legati alle grandi risorse petrolifere della zona. Dopo l’11 settembre, anziché un mutamento di strategia politica verso il Medio oriente, ha avuto inizio una guerra senza fine in alcuni punti nevralgici, come l’Afghanistan e l’Iraq, e si è alimentata una cultura anti-araba, mentre sottobanco si continuavano a gestire gli affari nell’assoluta indifferenza verso il destino delle popolazioni africane e verso l’intero Medio oriente; la grande questione del conflitto fra Palestina e Israele si è lasciata incancrenire senza riuscire a creare le condizioni vere per una “pace duratura”. 



La storia ci ha insegnato che lo scatenarsi della violenza popolare può lasciare tracce durature e divisioni profonde in seno allo stesso popolo. La molla che fa scattare la ribellione all’oppressione insopportabile di un regime autoritario è legata anche allo sgomento quotidiano; per questo è necessario che le rivolte popolari riescano a indirizzarsi verso uno sbocco positivo, di conquista di un futuro per le nuove generazioni. 

Vorrei invitare me stesso e chi mi legge a pensare ai giovani arabi, distesi sulle pianure del conflitto, che provano ad immaginarsi all’interno di uno scenario che continuamente li manipola. Cosa rappresenta per il giovane arabo la polvere da sparo sparsa su tutto il suo territorio, in cui si sono formati i suoi costumi e le sue certezze? Un bel racconto filmico di Guido Chiesa sottolinea, con leggerezza, la certezza con cui il bambino che salta da una pietra all’altra sul pozzo nel deserto è custodito dalla madre, che lo guarda nella sua incommensurabile missione: misurare il pozzo con i saltelli. Cresciuto, come farà il giovane a guidare i suoi coetanei, con l’anima spezzata tra la cura materna e la violenza ereditata dai padri? Se, come sostiene Derrida, il silenzio è una grande scrittura e solo rileggerlo e riascoltarlo può consentire di penetrare i segreti dell’universo, non c’è dubbio che le scene di questi giorni rimandano ad epoche antiche, in cui dalla sfida tra Davide e Golia dipendevano le sorti del mondo. 

Giovani delle rivoluzioni arabe, ragazzi spaccati nelle loro vite, eppure così immensi nel loro significato simbolico di ponte… Vorrei che tutti i giovani sentissero improvvisamente il bisogno del canto, che si mettessero a danzare sui cortili degli antenati, che prendessero l’impegno per il mondo arabo di costruire un nuovo spazio mediterraneo, laddove una volta i nostri antenati hanno costruito la grande Alessandria. 

Credo che la potenza dei simboli sia proporzionale al contributo di significati che riversano sulla storia. In questi termini, bisogna saper estrarre tutto il succo che deriva dalla mela antica. La sola via d’uscita è la relazione affettiva, la riscoperta dello spazio in cui l’Io e il Tu non si negano il posto reciproco. L’incontro del Papa con i migranti di Lampedusa ce lo ha ricordato, e spero davvero che abbia effetti profondi sul piano simbolico e sull’immaginario collettivo. Le parole e gli atti di Francesco riusciranno, forse, a mettere in discussione quella globalizzazione dell’indifferenza che il Papa denuncia e che ciascuno di noi dovrebbe spazzar via, innanzitutto dal proprio animo.