“E lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato”. Come molti altri versi di Dante, anche questi (Paradiso, XII, 139-141) hanno trovato accesi partigiani e avversari irriducibili di quei partigiani, sono stati declamati con solennità un po’ stentorea oppure analizzati a mente fredda. I dissidi tra esperti di opposte fazioni spesso riescono avvincenti solo per i frequentatori di simposi e gli abbonati di riviste scientifiche, capita di rado che la posta in gioco non sia esclusivamente accademica. Ma cosa c’è in ballo in quella terzina gravitante su un nome e sigillata da un riconoscimento? 



“Mi occupo di un abate di Calabria del XII secolo, non so se ne avete mai sentito parlare”. Una studiosa di Gioacchino presentava così la sua attività di ricerca intorno agli anni Trenta del Novecento, quando quel nome, a tanti, non diceva gran che. Ben diversa oggi la situazione, dopo biografie approfondite, sondaggi ricchi di dottrina, edizioni moderne, convegni internazionali. Non occorre spiegare a nessuno chi fosse l’austero monaco cistercense annidato sui monti della Sila, fondatore di una nuova congregazione, nonché amico di tre pontefici, tutti ben disposti verso i suoi progetti di riforma cenobitica e pronti a incoraggiarlo anche per le opere di esegesi biblica. E nemmeno c’è bisogno di rievocare i problemi insorti dopo la sua morte (1202), le prime condanne dottrinali, le forti diffidenze della Sorbona, le critiche dalla penna rigorosa di Tommaso d’Aquino. Come pure, le affinità elettive avvertite dai rigoristi francescani; perché, assieme al sospetto, cresceva pure la simpatia, e si ramificava una lunga “posterità spirituale” in cui qualcuno ha voluto inscrivere anche Hegel, se non lo stesso Marx. 



E Dante? I suoi versi sull’abate da Fiore non andrebbero estrapolati dal contesto, che è il cielo del sole, dove al pellegrino appaiono i sapienti cristiani, in due corone o ghirlande di dodici spiriti ciascuna. Lo speaker della prima è Tommaso d’Aquino, e presenta i beati di sua spettanza, fra cui il filosofo Sigieri di Brabante, in vita aristotelico anche lui, come il grande Tommaso, ma su posizioni ben più estremiste, su una frontiera di razionalismo irriducibile, tanto da sostenere la teoria della doppia verità. 

Dimostra, ad esempio, la ragione che non esiste alcuna sopravvivenza dopo la morte, professa invece la fede il dogma della vita eterna, e da credenti occorre aderire all’insegnamento del magistero, insomma a ciò che con la ragione si deve negare: da una parte sta il sapere, dall’altra il credere. Sulla terra, Tommaso aveva aspramente combattuto la tesi della doppia verità, in Paradiso convive con il suo antico avversario, nell’estremismo di Sigieri si annidava anche un’istanza autentica, e in Paradiso ogni frammento buono viene recuperato. 



Analoga la situazione della seconda corona, il cui portavoce è Bonaventura da Bagnoregio, teologo sensibile alla dinamica della storia, al progredire delle epoche; accanto a lui sta appunto Gioacchino da Fiore, che aveva spinto la sensibilità per lo sviluppo storico fino a esiti eversivi, giungendo a teorizzare una veniente età dello Spirito, superiore a quella veterotestamentaria del Padre e anche a quella neotestamentaria del Figlio. I seguaci francescani di Gioacchino erano stati avversati con durezza da Bonaventura, eppure nell’alto dei cieli lo stesso Bonaventura non sdegna di accompagnarsi all’abate calabrese, la verità è sinfonica, ne avrà colto anche lui una nota, mettendo a fuoco una faccia del prisma dagli altri ignorata. “E lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato”.

Riportato al contesto, il fatidico riconoscimento assume il suo reale valore: come Dante non si sta identificando con Sigieri di Brabante, così non intende nemmeno fiancheggiare le dottrine gioachimite. Nell’autore della Commedia possiamo anche sospettare qualche interno attrito, ma non una clamorosa schizofrenia; farne un supporter dell’aristotelismo radicale e al tempo stesso un banditore della tertia aetas è semplicemente impossibile, anche a voler dimenticare che nel XIII secolo i seguaci di Gioacchino reputavano gli aristotelici alla Sigieri come emissari, sic et simpliciter, di Satana. Con questo, il problema non è risolto: resta da chiarire cosa Dante abbia creduto apprezzabile nel “profeta” dell’età nuova. Certo, non il preteso superamento dell’economia del Figlio, non la forzosa separazione della terza persona trinitaria dalla seconda (lo Spirito è Spirito di Cristo come volle sottolineare de Lubac); e nemmeno il sogno di un avvenire dove la verità fosse posseduta interiormente da tutti i credenti, con conseguente cessazione del magistero della Chiesa, ormai solo Ecclesia spiritualis, interamente volta a una vita contemplativa, in salmodie e giubilo.

È stato osservato, da H. Mottu, che il gioachismismo rappresenta la tentata rivincita del futuro sull’aldilà. Si potrebbe aggiungere che in gioco è anche un atteggiamento verso il presente, non più tempo favorevole, occasione propizia, ma teatro depresso e corrotto: di qui la scommessa sul risarcimento annidato in grembo all’avvenire. In fondo si tratta di un utopismo ante litteram, fermo restando che la novità futura, in Gioacchino, è frutto di un piano divino e non di un’umana costruzione. 

È a questo livello che, in certa misura, si registra una prossimità di Dante; in gioco, s’intende, è il Dante politico, in forte ansia per la situazione italiana e in definitiva dell’Europa nel suo insieme. Esiliato da Firenze insieme agli altri membri della fazione dei Bianchi, invisa a papa Bonifacio VIII e ai sovrani francesi di Parigi e di Napoli, Dante interpretava la vicenda della sua città in termini di perdita della libertas e di incardinamento entro l’egemonia degli Angiò, spalleggiati senza remore dalla Santa Sede; così, tutta la penisola gli appariva affetta da una conflittualità devastante, in cui una grande potenza fagocitava i comuni. 

Era collassato, a suo giudizio, l’intero pilastro politico della comunità umana, mentre pericolava anche quello religioso, a causa di un temporalismo papale assai attento allo scacchiere politico, poco curante della missione pastorale. 

Di qui, un sentimento dell’attualità come crisi radicale, per cui occorreva auspicare un soccorso futuro: le grandi profezie della Commedia, annunci di un prossimo liberatore, ora raffigurato sotto le spoglie simboliche di un cane da caccia (il veltro), ora alluso mediante un enigma numerico (il cinquecento dieci e cinque) nascono su questa base. Rigetto dell’hic et nunc politico, deciso investimento sul domani: ecco la venatura utopica di Dante. Ma in un quadro di pensiero che, guardato con attenzione, si rivela tutt’altro che gioachimita.

Nessun sogno, in Dante, di un mondo perfetto situato dopo l’attuale curva opaca, di una guarigione nell’avvenire di tutte le piaghe della condizione umana. Il compimento attende oltre la storia, in quell’ambito che si situa di là dall’imperfezione del tempo, anche se la scena temporale, nelle sue manifestazioni positive, ne costituisce l’anticipo, la caparra. Cosa aggiungerà, allora, alla condizione presente l’avvento del liberatore? Non si tratta di una figura messianica, ma di un imperatore o di un suo emissario, che non dovrà inaugurare una palingenesi, non taglierà il nastro di un’età aurea, reintegrerà invece le istituzioni politiche in sfacelo, non senza ricondurre la Chiesa al suo fondamentale compito di annunciare Cristo. 

È opportuno rendersi conto di tutte le implicazioni di una lettura del liberatore dantesco (veltro e cinquecento dieci e cinque) in termini politici, ben più che un’opzione fra le altre di un sottile e complesso gioco ermeneutico, gradito agli analisti di mestiere, irrilevante per i lettori senza virus specialistico. L’Impero è per Dante la piena attuazione dello Stato: proprio perché monarchia universale, non coltiva ambizioni espansionistiche – domina già il mondo intero – e può governare con la giustizia sconosciuta ai regni, inevitabilmente avidi di espansioni territoriali, e con l’efficacia impossibile ai comuni, troppo deboli per schivare un destino di capitolazione. 

Ebbene, esiste lo Stato – a riguardo il Convivio è esplicito – perché è necessario un argine al peccato, che distruggerebbe altrimenti il tessuto sociale, rendendo impossibile il viver dei cittadini; questo antemurale non è evidentemente la redenzione dalla colpa, è appunto una diga atta a impedire l’inabissamento della civiltà. Per conseguenza, l’Impero reintegrato che Dante auspica, lungi dal coincidere con il mondo perfetto, sarà la medicina di nuovo spalmata su una piaga che non guarisce mai del tutto, e deve essere accudita senza interruzione, rimanendo costantemente sull’orlo della cancrena. È lo Stato nella sua forma compiuta, l’Impero, come invece non lo sono i comuni e i regni; se si vuole, è l’ospedale davvero efficiente, ma ciò vuol dire che vigila e interviene su una salute pubblica sempre in forse. Una società di sani non ha bisogno di un ospedale perfetto, fa a meno di ogni presidio sanitario. Non per caso, Gioacchino aveva previsto che nell’età dello Spirito l’Impero si sarebbe dissolto, persa ormai la sua ragion d’essere. 

Per quanto lambito da un rivolo di utopismo, Dante ha conservato in sostanza una concezione del tempo risalente ad Agostino. Secondo l’autore del De civitate, il tempo è, per sua strutturale costituzione, ambivalente, denso di possibilità positive come di germi virulenti, una mischia di ombra e luce, di miracoli e di orrori, e questa ambivalenza non viene cancellata dalla Redenzione, al contrario nell’era di Cristo – quella veramente definitiva – il bene è fronteggiato da un male più accanito, perché più astioso è il no pronunciato al cospetto della grazia. Dante ne era perfettamente consapevole; e non intendeva certo pronosticare una fase storica libera dalla contraddizione, un supposto paradiso in terra. 

La sua Commedia rilancia un altro Paradiso; senza mai occultare che l’eterno si avvista e si guadagna nel presente. Ne sono testimonianza i salvati del poema sacro, con particolare splendore i santi della terza cantica, che hanno depositato nelle mani della grazia il loro frammento di merito, la minuzia della loro opera. Commentando il poema sacro, osservava un altro poeta, Giuseppe Ungaretti, che in Dante il tempo ospita qualcosa che non si perde e in questo senso fissa l’eternità.