Il pomeriggio del 19 dicembre 1942 cambiò la vita di Eugenio Corti. 

Il ventunenne tenente d’artiglieria, partito per la Russia per comprendere il vero volto del comunismo e di una terra (apparentemente) privata di Dio, iniziava quel giorno la marcia assiderata per sfuggire all’accerchiamento delle forze sovietiche. 



Dei 30mila italiani che componevano il 35° Corpo d’armata (divisioni «Pasubio», «Torino» e la 298ª tedesca) soltanto 4mila riuscirono a scampare dalla morsa del nemico: la maggioranza di loro era ferita, congelata o con gli arti in cancrena.

Fu un calvario di 28 interminabili giorni. Sulla bianca distesa spazzata dal vento e dalla neve si affacciarono molti spettri. Il nemico invisibile eppure presente e incalzante. Il dolore di lasciare indietro i compagni incapaci di proseguire. Lo sfascio di un esercito senza disciplina in cerca della salvezza. 

Eugenio Corti quel giorno iniziò un personalissimo «corpo a corpo» contro la violenza della natura (il termometro segnava -40°…) e degli uomini, ma anche con la propria coscienza. Se fosse scampato alla sacca – questo fu il suo voto – avrebbe scritto, avrebbe testimoniato l’inferno per cui era passato. Mentre il lunghissimo bruco nero dei soldati in ritirata si snodava nella pianura, Corti prendeva coscienza della sua vocazione: avrebbe raccontato tenendo presente due stelle polari del suo personalissimo firmamento: la verità e la bellezza, secondo il canone di Omero, l’autore di cui si era innamorato sui banchi del liceo San Carlo a Milano. 

I più non ritornano è il diario di un’Odissea bianca, ma è molto di più di una dettagliata cronaca della disfatta. È un’interrogazione sul senso del dolore e della stessa vita, come riassume uno dei passi più potentemente metafisici del racconto: «Ero stanco fino alla morte. Nel viola del cielo si inseguivano lucenti pallottole traccianti. In quel cielo c’era Dio: io ero muto e grigio davanti a Lui». 

Nelle pagine de I più non ritornano sono contenute in nuce tutte le qualità che hanno fatto di Eugenio Corti un classico della nostra letteratura: lo stile limpido e diretto, la capacità di dipingere un affresco con pochissimi tratti, così come quella di penetrare nelle anime dei personaggi che sembrano alzarsi dalle pagine tanto sono vivi e interroganti. 

I più non ritornano apparve in Italia per Garzanti nel 1947. Quella di Corti fu la prima voce a raccontare l’inferno bianco della Campagna di Russia. Solo in seguito sarebbero arrivate le straordinarie testimonianze di Bedeschi, di Rigoni Stern e di tanti altri. Dal ’47 le edizioni si sarebbero succedute senza soluzioni di continuità per i maggiori editori italiani. La gestazione del libro fu articolata. 

Corti iniziò a redigere il memoriale a metà febbraio del 1943, quando era ricoverato presso l’ospedale militare di Merano, e lo concluse, come lui stesso racconta nella Nota conclusiva, l’8 maggio seguente, durante la licenza di convalescenza. Venne l’8 settembre e la conseguente occupazione tedesca: Corti comprese che quel manoscritto di trecento pagine poteva diventare compromettente e volle che fosse avvolto in un telo impermeabile e sotterrato. Passata la bufera della guerra, lo avrebbe disseppellito (era tutto corroso dall’umidità) e battuto a macchina, parola dopo parola, con l’aiuto di una sorella. 

La prima edizione del libro ebbe un prefatore illustre: Mario Apollonio, allora docente e preside di Lettere all’Università Cattolica di Milano, che subito si accorse della grana inconfondibile del giovane allievo: «Lo stile stesso del libro è lo stile di cronaca, l’annotazione di fatti accaduti, semplice e senza nessun ornamento letterario. I fatti sono brutali: fatti degli uomini che hanno superato i limiti della resistenza umana, fatti delle mille maniere di morire: di fame, di freddo, di pazzia, di tradimento, di bestialità, di odio…». 

Un anno più tardi (nel frattempo il libro volava verso la quarta edizione…) Felix A. Morlion, fondatore dell’Università Luiss di Roma, scrisse un’entusiasta recensione sulle pagine de L’ora dell’azione (30 dicembre 1948). Il critico restò conquistato dall’aurea simplicitas di Corti e dalla sua capacità di sondare i cuori anche se immersi in un catino di odio e desolazione: «Man mano che prosegue il racconto spoglio, con brevi frasi, quasi “telegrafico”, comincia a vivere in noi la stessa terribile realtà, l’esperienza degli abissi della miseria, del freddo, della morte. E precisamente perché entriamo nella realtà di questi giorni smisurati, entriamo nel vero della vita umana che tocca l’infinito come una cosa reale. C’è l’infinita tenerezza del cuore umano che delicatamente, ma ineluttabilmente attinge in pieno orrore alla grande unità sopranazionale della famiglia umana: “Un ragazzo russo…, ridotto a un pezzo di ghiaccio… il viso grassoccio rivolto al cielo con gli occhi aperti e resi di cristallo dal gelo… pareva lanciasse un grido di estrema protesta contro l’inumana mostruosità della guerra. In lui mi parve di vedere tutto il popolo russo, che da tanti anni soffre di dolori senza nome. Povero piccolo soldato russo!”. Ed in mezzo a tutto questo c’è la presenza suprema, la realtà delle realtà: Dio».

Le opere di Corti sono ormai tradotte in tutto il mondo. Se c’è un Paese però, oltre all’Italia, che ha dimostrato una dedizione totale (di critica e di pubblico) all’autore del Cavallo rosso, questo è la Francia. 

Tra gli studiosi degli anni più recenti, c’è Laurent Mabire che ha accostato le pagine «russe» di Corti a quelle di Victor Hugo quando paragonava la distesa in cui scompariva l’Armata napoleonica a un immenso sudario: «Il deserto divorava il corteo. Si poteva capire, attraverso alcune pieghe che sollevavano la neve, che alcuni reggimenti si erano addormentati là… Si addormentavano in diecimila, se ne risvegliavano cento… tutta un’armata si perdeva così nella notte».

I più non ritornano è un libro duro e violento dalla scrittura profetica. Procede per tratti rapidi e potenti, che lo rendono estremamente moderno e che nulla a invidia a maestri della narrazioni di guerra come Hemingway o Fenoglio. Ma per il lettore la violenza di Corti ha l’effetto catartico del teatro greco. Si entra nel buio, lo si respira a pieni polmoni, per desiderare quanto mai la luce e allontanare da sé i tentacoli del male. È la stessa chiamata a cui risposero i testimoni dell’orrore dei gulag, come Solgenicyn e come Shalamov. I più non ritornano è quindi un atto d’accusa contro la guerra che in realtà non conosce né vincitori né vinti

È ancora Mabire ad aver sottolineato la forza e la pietas di questo diario: «Come ogni documento che provenga da testimoni diretti di un avvenimento, anche questo possiede un’energia indomabile, un dolore sordo, una sobrietà intensa. Fedele alla semplice esposizione dei fatti che ha vissuto in quei giorni – quei secoli saremmo tentati di pensare – scrupolosamente documentati e verificati, l’autore del Cavallo rosso, senza fioriture, senza digressioni né grandi frasi, ci rende disponibili all’emozione che non manca di procurare la lettura di pagine costruite con l’intensità drammatica di una tragedia antica. Nell’intemporalità in cui ci colloca l’autore, nonostante il computo preciso dei giorni che passano, non ci è possibile prendere partito per un campo o per l’altro. Al centro della tormenta russa, i Tedeschi, gli Italiani o i Russi sono tutti vittime e carnefici, ciascuno preso nella morsa della guerra, ciascuno preso in una spirale di violenza e di dolore che sembra non dover mai finire, ciascuno aggrappato a una scintilla di umanità che occorrerà conservare nella traversata di questa “stagione all’inferno”». 

A dispetto di tanti altri, Corti non gioca a effetto con l’orrore e la sofferenza. Non calca volutamente le tinte. È un histor che vuole che nulla si perda, che nulla venga escluso dalla rete. Laura Cioni ha ricordato che il libro «non ha soltanto l’aspro sentore di chi vuole strappare alla morte della dimenticanza un frammento di storia; ha anche la virile dolcezza della pietà, che sa trattenere negli occhi della memoria la consolazione dell’alba, il tepore di un pasto, l’intensa dell’amicizia, l’umiltà delle mutilazioni, la fede nella provvidenza».

Per un grande scrittore ogni piccola cosa, ogni scarto minimo, ha diritto di cittadinanza, a patto che porti il riflesso della verità. Quando è stato chiesto a François Livi, docente alla Sorbona di Parigi, di definire l’asse portante de I più non ritornano, non ha avuto dubbi: «È la fedeltà assoluta alla realtà e alla verità dei fatti, senza alcuna concessione a mode letterarie. Il rispetto per una materia così bruciante e tragica scarta ogni effetto retorico e ogni costruzione artificiale. Nessuna concessione al patetico, alle riflessioni psicologizzanti, alle digressioni, alle transizioni abilmente manovrate; nessuno sfruttamento dell’orrore». 

Verità, verità, soltanto verità: è questo il compendio della ricerca di Corti. I cerchi concentrici generati dai suoi lavori non smettono di allargarsi, di conquistare  nuovi lettori. 

È il destino dei grandi maestri.