I conti con la realtà, con i propri errori di valutazione, presenti e passati, non portano necessariamente alla soluzione dei problemi. Ma almeno c’è il conforto della consapevolezza, a cui si può aggiungere il germe di una speranza e il tentativo di una via d’uscita. In questa Italia del 2013 lo scenario ha due caratteristiche predominanti e drammatiche: una crisi economica di impressionante ampiezza e lunghezza; una crisi politica che, nonostante qualche apparente boccata d’ossigeno, sembra quasi senza sbocchi. È tutto frutto del caso, oppure di una evoluzione storica? Di un destino scritto e inevitabile o di gravi errori, magari dettati da una gretta avidità? Non parliamo di complotti e grandi intrighi internazionali, perché servono solo come comodi alibi per sfuggire alla realtà e alla ricerca della verità.
In questi vent’anni di cosiddetta “seconda Repubblica”, le illusioni di una rigenerazione (quello che si pensava e si reclamava nel 1992!) sono franate miseramente. Forse si cominciano a comprendere adesso i processi che hanno causato la “rottura” degli anni Novanta, quando un’intera classe dirigente è stata “collocata in pensione militarmente” e l’economia italiana è stata talmente trasformata da entrare in una fase che fa pensare a una liquidazione del suo apparato produttivo.
È per lo meno strano che siano pochi quelli che affrontino le dinamiche avvenute venti anni fa e nel “ventennio”, e che si pongano domande sul perché tutto questo è capitato. C’è quasi una colpevole e complice reticenza nell’affrontare la radice dei problemi della situazione che stiamo vivendo.
Esce dal coro assordante di questa reticenza, da questo insopportabile “pensiero unico” e totalizzante, che dilaga nei media di tutti i tipi, un grande economista come Giulio Sapelli con il suo Chi comanda in Italia edito da Guerini e Associati.
Questo saggio bisogna leggerlo con attenzione e rifletterci sopra più volte. Anche perché Sapelli non è l’economista che viene oggi “messo in vendita” dalla nuova moda mediatico-tecnocratica, tutto competenza e “brutalità” scientifica. Giulio Sapelli è innanzitutto un umanista (con interessi in tante discipline) che eredita la grande tradizione italiana ed europea della conoscenza. Quindi, lo scopo dei suoi studi e delle sue analisi si rivolge agli uomini, alla società degli uomini, al benessere delle persone, a quello che si definisce il tanto conclamato, e sempre dimenticato, “bene comune”. Sembrerebbe scontato, ma in un’epoca di stravaganti e inconsapevoli “dottor Stranamore”, occorre purtroppo ricordalo. C’è stato forse in questi anni qualche “guru dei derivati” e della “finanza sintetica” che si ricordava del valore del lavoro, dell’economia reale e della possibile questione sociale che può esplodere con la continua concentrazione della ricchezza nelle mani della rendita, e dell’impoverimento generale che viene calcolato mese dopo mese in Italia?
La questione non è solo di natura finanziaria ed economica, ma di carattere politico, della capacità di far politica e di immaginare un futuro credibile e realistico in un contesto di vecchia e cara democrazia rappresentativa. In un “regno” dove ormai si è arrivati all'”inversione della rappresentanza”.
È su questo punto che Sapelli richiama la nostra attenzione.
L’attacco del libro di Sapelli è una semplice domanda: chi comanda oggi in Italia? La risposta è cruda e impietosa: in Italia non comanda nessuno e quindi si comanda solo con il denaro. Le considerazioni che si aggiungono sono a questo punto drammatiche e spiegano perfettamente la situazione di disgregazione politica che vive il Paese. Spiega Sapelli con un riferimento classico a messer Francesco Guicciardini: “Tutti comandano per far sì che nessuno comandi. L’importante non è vincere, ma impedire agli altri di vincere. Nella crisi di disgregazione il destino guicciardiniano d’Italia ora è davanti a noi”.
Il problema parte da lontano e ha ragioni storiche profonde per l’Italia, ma ci sono stati i processi degli anni Novanta, a livello mondiale, che hanno favorito l’attuale crisi e la conseguente disgregazione della classe dirigente. A che cosa abbiamo assistito in questi anni? Vediamo sempre più uno spostamento del reddito dal lavoro al capitale, un fenomeno che ha creato l’affermazione del totalitarismo liberistico, un pensiero unico che è alla base della crisi economica di questi anni e che la sinistra non ha affatto compreso. Anzi, con il dubbio gusto di diventare moderna, la sinistra italiana e anche internazionale ha addirittura, spesso, inseguito questa modernità, identificata con il mondo della finanza e con le liberalizzazioni in quanto tali. In questo modo si è posto al centro dell’organizzazione sociale il denaro e non il lavoro. Tutto questo ha comportato delle conseguenze devastanti, per l’impossibilità del denaro di riaggregare il sociale e di dare ad esso un significato di comunità riproducibile.
Se in Italia la disarticolazione dei poteri (e chi si ricorda più dei cosiddetti “poteri forti”?) è più datata di quanto possiamo pensare, non c’è dubbio che il culmine viene raggiunto negli anni Novanta, con le privatizzazioni senza liberalizzazioni e con l’accresciuto potere autonomo degli ordini dello Stato a partire dalla magistratura per arrivare alla burocrazia. Certo, in Italia, questa disarticolazione è accresciuta da una totale mancanza di classi dirigenti sia in politica che in economia.
Sapelli, con il suo saggio, ha il merito di aver compreso non solo la “follia” finanziaria dei “nuovisti”, ma anche di riuscire a spiegare quello su cui si interrogano da anni gli ormai vecchi uomini della “prima Repubblica”, quando con un’autocritica malinconica, di fronte a quella svolta epocale, ammettono: allora non abbiamo compreso nulla di quello che accadeva.
Sconvolgimenti geostrategici, spinta inconsulta alla finanziarizzazione, mutamenti culturali, perdita di una memoria storica come la “missione” che ha svolto in Italia la classe dirigente uscita dalla Resistenza. Il percorso di Sapelli tocca la politica, l’economia, la storia, la sociologia, l’antropologia e il lettore trova un filo rosso ben preciso per arrivare a una conclusione.
È da un libro come Chi comanda in Italia che si vedono le profonde ferite italiane. Di fronte a queste ferite non basta l’unione monetaria europea, che, realizzata in questo modo, Sapelli razionalmente definisce la “negazione della storia” e, semplicemente, “una follia”. Lasciamo che il lettore lo scopra, pagina dopo pagina. Le speranze, a questo punto? Forse sono poste in un piano europeo di politica economica keynesiana.
Ma è una speranza legata a un filo molto sottile. Immaginare che la signora Angela Merkel e i “bulldog” della Bundesbank comprendano quello che ha scritto un lord inglese liberale come Maynard Keynes è impresa molto ardua. Soprattutto di questi tempi.