Come si racconta la perdita dell’innocenza, senza credere che l’uomo sia innocente. Come si può indulgere alla nostalgia dell’infanzia senza credere che sia solo un tempo di spensieratezza e gioco. Opera d’arco (Edizioni Estemporanee, Roma, 2013) sta sulle tracce di una Via Pal quasi contemporanea, se ci è ancora contemporanea l’Italia appena uscita dagli anni del boom, ma che nascondeva, negli anfratti delle sue province, una quotidinianità sottomessa a riti ancestrali, all’andirivieni tra parrocchia e osteria. Dove si cresceva ancora poveri come i padri e i nonni, con le scarpe e le mani grosse, abituate a piegare rami di sambuco e tirare il colo alle galline, la pelle ruvida, usa ai bagni nel fiume e all’erba che punge tra le fibre di stoffa grezza.
Si cresceva per bande, con un capo non scelto, ma che ti sceglie: solo qualche centimetro in più, ma il cipiglio e la strafottenza del comando. Un capo che ti fa salire nella capanna sulla grande quercia, dove si procede all’iniziazione col patto di sangue; che ti insegna a costruire e tirare arco e fionda, ti svela i recessi proibiti della trasgressione, il sapore perturbante del peccato. Si cresce così, tra Tonino Occhio di Falco e i sermoni severi del prete, incerti quale legge osservare, perché in una perduta montagna d’Abruzzo alle volte la legge di Dio non arriva, ma quella del branco è sacra.
Rocchetto è l’innocente tradito, un bambino senza ancora fattezze e pruriti dell’adolescenza, che segue la banda, il suo io, quando ha un padre ubriacone e una madre bigotta che scopre di facili costumi e con l’unico padre che abbia mai avuto, quello che gli parlava di Dio, il prete. Rocchetto ha un innato senso della giustizia e il coraggio istintivo della sua età: piccolo inconsapevole Ulisse, ha imparato a usare l’arco, lo tende per colpire e punire quel maestro cui aveva dato tutto, le confessioni più segrete, la fiducia in una salvezza possibile (e chi scandalizza uno di questi piccoli, è meglio per lui che gli si getti una macina d’asino al collo).
Punisce nel sacerdote indegno il mondo intero intramato di soprusi, violenza, ubriacature di vino spesso e sessualità bestiale, dove non c’è più parola che salva. Anche il dialetto in cui grugniscono i compagni è duro, di scorza, non concede tenerezze. È però il segno della terra che ti ha formato, l’odore dei suoi umori e del sudore di uomini e bestie. Non è facile tirarlo fuori dalle viscere, non come un vezzo letterario, ma per tracciare la commedia umana racchiusa in un paesino abruzzese.
Per dargli un respiro filosofico che non tace le domande che pungono e non trovano pace. Non a caso l’Autore è filosofo e insegnante, sa bene che segni lasci, che sfida accolga chi si dedichi all’educazione.
Rocchetto compie dunque la sua vendetta e si vendica due volte, incolpando il capo inflessibile che l’ha scacciato dal branco. Ma “il fattaccio” peserà su lui solo, come un’onta, quella della menzogna. Il fattaccio, il dispregiativo evocato fin nelle prime pagine del romanzo e che lo accompagna con un dispiegarsi d’attesa, un incalzare di ansia e paura. Il fattaccio bisbigliato di voce in voce, una macchia per la comunità, è una condanna, chiede l’espiazione suprema. Ma Rocchetto, diventato ormai Rocco, sul limite del gesto estremo si scopre più incerto e capace di autoassoluzione. Sa che il peccato ha tante sfumature, che la sua colpa di bambino con lo strascico inimmaginabile di dolore che ne è seguito ha forse un senso, perfino un sospetto di redenzione. Scopre che l’essere è meglio del non essere, sempre e comunque. Scommette sulla speranza, sul futuro.
Moccioso Rocchetto, che ci commuove come Pin de Il sentiero dei nidi di ragno, come la Ginia de La bella Estate, come i ragazzi di vita di Pasolini. Squarcia l’ipocrisia di adulti mal cresciuti, incapaci di educare ed amare. Grida a tutti noi che parlare con Dio, faccia a faccia, è la domanda di ogni uomo che si ricorda di esser stato bambino.