Non sono qui per raccontarvi la biografia di san Camillo de’ Lellis. Ne ho già parlato nel mio libro I santi militari (n. ed. Estrella de Oriente), in quanto, prima di dedicarsi ai malati, faceva il soldato di mestiere. Non a caso, divenuto fondatore, organizzò uno dei primi servizi di ospedali da campo per combattenti. Non fu il primo, in verità: ci aveva già pensato la regina Isabella di Castiglia, detta la Cattolica (e sempre in attesa di beatificazione, se a ciò non ostassero i malumori di ebrei e musulmani), che approntò servizi di ambulanze durante le guerre di riconquista della Spagna ai mori. 



Dicevo che la biografia di san Camillo si trova facilmente anche sul sito santiebeati.it, perciò non è il caso di riparlarne qui. No, oggi vi intratterrò su un aspetto di questo santo che mi intriga particolarmente. Cioè, il suo essere stato un peccatore (e fin qui nulla di strano, direte voi), ma pure fedifrago e recidivo. 



Mi spiego meglio. Era un soldato di ventura. Dunque, non uno che combatteva per ideali, no. Lo faceva per soldi. Chiunque pagasse. E di soldi gliene servivano sempre tanti, perché aveva il vizio del gioco. Il giocatore vizioso si distingue da quello professionista perché perde sempre. È, la sua, una forma di nevrosi ossessiva che, con le moderne tecniche, può essere curata, ma ai tempi di san Camillo (XVI secolo) l’unico rimedio conosciuto era la galera per debiti. Camillo si ridusse alla disperazione, anche perché gli era pure venuto un ascesso in una gamba, una piaga che non guariva mai e che gli impediva di lavorare per ripagare i creditori. 



Non sapendo più a che santo (è il caso di dirlo) votarsi, scongiurò la Madonna di guarirlo, facendo voto solenne di non più toccare carte e dadi. Ebbene, la Madonna lo ascoltò, tant’è che la piaga nella gamba si richiuse. Ma il voto di Camillo durò lo spazio di qualche mattino. Infatti, il demone (è davvero il caso di dirlo) del gioco lo riprese e il nostro si ritrovò in quella giostra infernale (proprio così) di vinci-perdi-rivinci-riperdi che non tardò a rigettarlo nel baratro dell’angoscia. Nonché in quello, ben peggiore, dei debiti. E pare proprio che la Madonna a quel punto abbia ritirato il suo favore, perché la piaga nella gamba tornò in grande stile, lasciando Camillo letteralmente in braghe di tela. 

Poi, il resto è noto. Dovendo adattarsi a qualunque offerta, l’unico posto di lavoro che trovò fu come inserviente generico nell’ospedale degli Incurabili. E fu alla vista di guai ben peggiori dei suoi che maturò quella riflessione profonda che sappiamo. Nacque lì il fondatore dei Ministri degli Infermi e il grande santo che conosciamo. 

Ciò che colpisce è il procedere di Dio (della Madonna, in questo caso, ma è lo stesso): per quanto miserabili possano essere le nostre miserie umane (e uno che fa un voto e poi, ottenuto il miracolo, se lo rimangia, è proprio deprecabile, per dire il meno), Dio può fare di chiunque un grande santo. Emerito schiaffo, questo, al pelagianesimo e a quanti credono, gnosticamente, nell’«etica». O nelle «riforme» o, perfino, nell’ascesi. Il Dio cristiano, incurante dei «giusti» e dei «buoni», sceglie un giocatore incallito, per giunta «relapso». Uno, dunque, di cui non ci si può, a viste umane, fidare. E ne fa un capolavoro. Di quelli, per di più, che sfidano i secoli, dal momento che gli uomini (e le donne) con la grande croce rossa sul petto sono ancora tra noi. I «camilliani», figli di quell’antico soldataccio abruzzese schiavo dei dadi.