Perché la politica deve rifuggire la menzogna? La domanda è cruciale e per nulla scontata. Essa ne sottende altre, più puntuali e decisive, che evidenziano il motivo per cui le relative risposte segnano storicamente il grado di civiltà e l’assetto di potere (totalitario o democratico) di ogni comunità presa a riferimento. Quali sono gli strumenti per contrastare la menzogna politica? A chi ne è affidata la titolarità? È possibile una politica «virtuosa»? Come coniugare il rispetto della verità con il conseguimento degli interessi pubblici? In definitiva, la verità è d’intralcio alla «ragion di Stato»?
Come spesso accade nell’affronto delle questioni ultimative, ogni domanda, piuttosto che essere risolutiva, provoca ulteriori riflessioni, suscitando altri e più mirati interrogativi; ed è questo l’esito cui conduce la lettura dell’ultimo libro di Luciano Violante, Politica e menzogna (Einaudi, 2013).
La menzogna, a ben vedere, non è appannaggio della sola politica; se mai, ne rappresenta l’emergenza più macroscopica ed esasperata, senza tuttavia risparmiare gli altri ambiti esistenziali. Del resto, se è vero che il fenomeno giuridico costituisce la proiezione pubblica del fenomeno individuale, è anche vero che la dialettica fra verità e menzogna pervade allo stesso modo l’esperienza tanto sociale, quanto del singolo; le relative differenze sono di ordine soprattutto quantitativo, più che qualitativo. Sicché non si può riflettere sulla menzogna politica, senza considerare quella individuale. Non vi sono zone franche e sottratte alla relativa inclinazione. E anzi, vien da chiedersi quali siano gli strumenti di resistenza affidati al singolo, una volta considerato come nell’attuale società tutto cospiri a tradire la verità.
Sul piano sociale, in fin dei conti, il potere pubblico non opera in modo dissimile dal potere privato, o da quello finanziario. A titolo esemplificativo, si consideri, nel primo senso, che la guerra in Iraq è stata decisa sul presupposto, falso, che Saddam Hussein possedesee armi di distruzione di massa; nel secondo senso, del pari, che la crisi finanziaria dei nostri tempi, secondo lee(le cosiddette Mbs, Mortgage-BacKed Securities) come «liquidi» e poco rischiosi, ben sapendo che non lo erano. Per non dire – viene da aggiungere – di quel formidabile strumento di giustificazione e moltiplicazione della menzogna, costituito dall’ideologia. Solzenicyn ricordava che Macbeth in Shakespeare è stato un criminale perché ha ucciso sette persone. “Per uccidere sei milioni, sessanta milioni, occorreva un moltiplicatore: questo moltiplicatore del delitto è l’ideologia”, una concezione totalizzante dell’uomo favorita dal potere; una concezione che assolutizza un singolo aspetto della realtà, anche se vero, a discapito di tutti gli altri.
Sul piano individuale, in pari modo, il potere del singolo non sfugge alla medesima dinamica. A essere in discussione non è solo quella debolezza strutturale dell’uomo, quell’inclinazione all’errore che induce il singolo a censurare tanta parte della realtà e che la Chiesa indica come «peccato originale»; sicché, muovendo da una posizione errata, egli è indotto a rinnegare i restanti fattori della stessa, sino a giustificare la propria condotta in modo menzognero. Più ancora, a essere in discussione è quella sopravvenuta difficoltà della ragione di accorgersi di tutti i fattori costituenti la realtà medesima, quella strana incapacità di riuscire a comprenderli e a decifrarli in modo da distinguere la verità dalla menzogna, il bene dal male; tanto più che senza una tale capacità di giudizio anche la libertà d’azione resta deficitaria.
È questa, forse, la parte più intensa e drammatica di tutta la riflessione. Più che il vero o il falso, interessa il verosimile, questa non-realtà che scorre parallela alla realtà, senza mai incontrarla; più che il fatto, interessa l’interpretazione; più che il reale, l’apparenza. Si tratta di un deficit cognitivo in cui è precipitata la ragione negli ultimi decenni e che ha contribuito a dissolvere ogni distinzione tra verità e menzogna. Il pensiero postmoderno, nato come istanza di libertà da ogni dogmatismo, si è risolto nel suo contrario; è approdato a una totale decostruzione della realtà, sancendo l’impossibilità di ogni impegno costruttivo. Una volta trasposto in ambito politico, tale approccio ha prodotto esiti nefasti. Se “la realtà costituisce l’unico limite invalicabile per la politica”, detto approccio ha consentito alla politica di sostituire la realtà con la sua interpretazione. Ne è derivato un populismo mediatico che ha illuso sulla possibilità di conseguire qualsiasi risultato. Il tutto, però, ha retto sino a quando la realtà non ha preso l’inevitabile sopravvento: “La guerra in Iraq con il suo carico di morti e di spese stellari e la crisi economica a lungo negata hanno segnato la rivincita del realismo” su quelle politiche postmoderne, che avevano cantato le «magnifiche sorti e progressive» di una simile prospettiva.
E così ci si è risvegliati in un contesto in cui non c’è sostanziale differenza tra la fragilità della democrazia e la fragilità dell’io: entrambe derivando da una sperimentata (e procurata!) incapacità della ragione di rapportarsi alla realtà. Vengono in mente le drammatiche parole pronunciate da Papa Francesco a Lampedusa, piangendo le morti dei profughi africani.
“Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito. […] Chi è il responsabile di questo sangue? Tutti e nessuno! […] La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti «innominati», responsabili senza nome e senza volto”.
Si arriva così alla domanda definitiva: cosa può restituire alla ragione la forza per illuminare e comprendere la realtà? È il tema dell’ultima enciclica dei due Papi, la Lumen fidei. Forse, potrebbe essere l’oggetto del prossimo libro di Violante.