A partire da una mia personale e dirompente esperienza, mi sono a lungo interrogato in questo periodo su cosa significhi davvero uscire dal quieto riparo che protegge dall’improvvisa esplosione della realtà, e ricercare la verità, senza infingimenti. 

Siamo immersi in un grande liquido anestetico, che altera progressivamente ogni rapporto sensibile con il mondo, innanzitutto attraverso le tecnologie più avanzate e la rete virtuale, nel cui flusso continuo diviene impossibile ogni distinzione radicale fra la rappresentazione di se stessi e la rappresentazione del mondo, fino alla sospensione delle coordinate spazio-temporali: “nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia […] Questa sembra oggi l’unica verità certa, l’unica condivisibile con altri, l’unica su cui si può discutere e impegnarsi insieme. […] La verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale, è guardata con sospetto […] la domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più“, ci ricorda Papa Francesco nella Lumen Fidei.



Nella sovrapposizione tra reale e virtuale, il mondo si va sgretolando fino a mostrare le sue crepe, mettendo a nudo la verminosità sottostante. Sta andando in rovina il mondo dell’individuo che si è pensato al posto di Dio e che oggi avverte stranamente una sensazione diffusa di catastrofe che accompagna il godimento sfrenato senza felicità e desiderio. Soggetto ed oggetto si sono fusi in un’informe indistinzione simile ad uno stato di immobilità assoluta; ma se, come afferma Hillmann, un mondo immobile è un mondo già morto, il nostro è un mondo che non possiamo che sentire destinato alla distruzione e alla consumazione. 



Gli individui di questo millennio non sono nomadi felici, compiaciuti della loro erranza, ma apolidi senza patria che vagano su barconi in attesa di un approdo transitorio. L’istante è come l’increspatura sulla superficie del mare, che si scioglie continuamente in una nuova increspatura e, tuttavia, nel momento in cui si verifica, esaurisce tutte le possibilità di tempo e di spazio che ne costituiscono la presenza; l’apparire e lo scomparire sono un movimento continuo che, di volta in volta, esaurisce tutto il tempo e tutto lo spazio. 

L’angoscia di morte richiederebbe una trasformazione dell’urlo senza voce di Munch in una rappresentazione simbolica della comunità umana, ma è stato distrutto ormai lo spazio simbolico in cui tradizionalmente i gruppi umani hanno elaborato, attraverso rituali, racconti e testimonianze, l’angoscia dell’inevitabile mortalità. La morte è la rappresentazione dell’individuo deformato dalla malattia fino alle viscere che ritroviamo nelle pitture di Bacon.



La cultura contemporanea, in un’evidente ambivalenza, da un lato dà centralità all’oscenità della morte, persino nelle scene cinematografiche, in cui prepotentemente si succedono racconti degli ultimi istanti del pianeta e degli ultimi istanti dell’essere umano, dall’altro spinge all’estremo la medicalizzazione e la cura farmacologica non solo dei devastanti mali fisici ma persino del dolore dell’anima. Ancora, mentre nei film sulla catastrofe aleggia l’ombra della visione apocalittica tramandata dai testi sacri e dai Vangeli, fino ad insistere sull’attualità contemporanea dell’Apocalisse e del discorso di Cristo sui segni dei tempi e sull’imminenza di un radicale cambiamento catastrofico, al contrario tanta parte del discorso scientifico spinge il proprio tentativo di cancellare la realtà fino a forme di vero e proprio irrazionalismo dogmatico, come nel caso degli economisti che continuano ad immaginare una crescita infinita, che contrasta vistosamente con la finitezza del pianeta. 

La negazione della fine accelera la fine di tutte le cose; come nella grande metafora dell’affondamento del Titanic, mentre già alcuni annegano nelle acque oscure dell’oceano, altri continuano a ballare nelle sale luminose come se nulla fosse accaduto, mentre la grande nave sta per inabissarsi definitivamente. Continua ad essere riproposto, per i superstiti del naufragio, il mito capitalistico dello sviluppo illimitato e del prolungamento tecnologico dei limiti dell’esistenza. L’ingegneria genetica cerca di trasformare l’atmosfera della nave che affonda in un’ulteriore promessa di eternità. I superstiti saranno eterni, anche se vivranno in mezzo alle macerie; immani sciagure prodotte da eventi naturali e catastrofi provocate da imprevedibili esplosioni nucleari sono le scene funeste della plancia della nave che affonda, illuminata dallo sfavillare delle luci notturne delle metropoli del mondo. 

Ma l’esplosione improvvisa della realtà può costringerci ad un risveglio che faccia attivare la capacità umana di trascendere la miseria del presente. Forse, dopo aver attraversato il silenzio dell’urlo di Munch, è possibile ritrovare lo spazio per rappresentare la disperazione e riaprire lo spazio simbolico della speranza. La capacità di sublimare l’angoscia di morte in una speranza futura non è un movimento del pensiero ma un’istanza originaria di chiunque venga al mondo per vivere la straordinaria esperienza del tempo della gioia e del dolore. La disperazione nasce quando si perde il senso del destino e della vita, ma provarla è una risorsa concessa agli esseri umani che, dopo aver distrutto il sacro, possono ritrovarlo nella propria persona e nel rapporto con le altre persone. Paradossalmente, senza la disperazione non è neppure possibile sperare, perché non esiste uno spazio temporale in cui collocare il proprio cammino verso una verità che dia senso alle dimensioni quotidiane dell’esistenza. 

La domanda sulla verità è – per tornare alle parole del Papa – una questione di memoria, di memoria profonda, perché si rivolge a qualcosa che ci precede e, in questo modo, può riuscire a unirci oltre il nostro ‘io’ piccolo e limitato. È una domanda sull’origine di tutto, alla cui luce si può vedere la meta e così anche il senso della strada comune“.

Nella sua fantasia di immortalità, l’individuo ha occupato interamente il posto di Dio e, dopo essersi “infuturato” in una sorta di prospettiva di onnipotenza senza limiti, si è poi scoperto nella sua nudità di essere mancante, senza alcun propriuum che instauri un rapporto con l’alterità del  mondo. Paradossalmente, dopo l’opera di demistificazione di ogni religione, di ogni ideologia e di ogni fiducia nella possibilità di trasformare il negativo in positivo, l’essere umano si trova improvvisamente a cercare il significato di una perdita che egli stesso ha determinato con l’abuso dei propri poteri razionali. L’universo si è improvvisamente gelato, non esprime più l’energia della vita che si muove verso un avvenire, ma la solitudine dell’essere umano in un mondo diventato indifferente. 

Solo nella prospettiva del dio come relazione amorosa, in cui il Creatore stesso si autolimita per vivere l’esperienza della presenza dell’Altro, si può ripercorrere la strada che, a partire da Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, inaugura un’epoca in cui la stessa volontà di potenza è superata nella reciprocità dell’amore. Le parole di Papa Francesco lo esprimono con un’immediatezza che supera persino il significato simbolico della parola: “se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata“. 

Dovranno entrare in campo nuovi modelli viventi del significato che la relazione amorosa tra persone può introdurre nella vita quotidiana; un nuovo bisogno d’amore che non sia collegato al riconoscimento e al rigonfiamento del proprio ego, ma che esprima essenzialmente il piacere e la libertà di donare, di amare un’altra persona e di sentirne l’intimità e la vicinanza. Se l’individuo che soffre nell’ultimo angolo del pianeta e che nella miseria delle sue condizioni sperimenta la propria impotenza e l’indifferenza del mondo circostante, non riesce a trovare il filo di una speranza che il tempo a venire renda giustizia del suo dolore, è l’intera civilizzazione che viene a mancare. 

Dal messaggio che ci è stato trasmesso dai Vangeli si può riscoprire la forza dell’amore: Gesù, trovandosi di fronte gli uomini sofferenti si commuove nelle viscere (Matteo 14,14); Gesù, smontato dalla barca vide una gran folla. Gli si mossero le viscere e guarì gli ammalati. (Matteo 15,32); Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli disse: mi si muovono le viscere per questa folla poiché da tre giorni sta con me e non ha da mangiare. Non voglio mandarli digiuni affinché non vengano meno per strada. Collocarsi dalla parte delle vittime, sperimentarne la sofferenza, significa porre fine alla storia di una forza che conosce solo il dominio e la volontà di potenza. Gesù Cristo si oppone alla sofferenza e all’ingiustizia tramite la partecipazione al dolore umano degli oppressi; solo ponendosi con uno sguardo nuovo di fronte all’esplosione della realtà, sentendone fin nelle viscere il dolore profondo, ci si può aprire alla verità. 

Se il tempo della fine si è consumato, questo è il tempo in cui va detta la parola “giusta”; Papa Francesco se ne fa portatore con un linguaggio immediato, biblico e innovativo al tempo stesso. Le sue parole e i suoi gesti sono assolutamente dirompenti, poiché stabiliscono una nuova forma di comunicazione, semplice e diretta, che supera le distanze del linguaggio teologico e filosofico.