Anche Google, non diversamente dalla maggior parte delle persone che hanno un qualche rudimento di letteratura tedesca, ha dimostrato di conoscere Franz Kafka in virtù del suo racconto più noto, La metamorfosi, dedicando allo scrittore ebreo il doodle di oggi, 3 luglio, nel 130esimo anniversario dalla sua nascita, con tanto di enorme scarafaggio dotato di valigetta. Eppure Kafka, nella sua pur breve vita – terminata nel 1924, ad appena 41 anni a causa della tubercolosi polmonare che lo affliggeva dal 1917 – scrisse incessantemente: tre romanzi, moltissimi racconti, un corpus sterminato di lettere alle sue donne e ai suoi famigliari, un lungo diario e, ancora, racconti su racconti. Un’esistenza trascorsa tra sanatori e scrittorio, minata dai dolori della malattia e dal suo continuo sentirsi inadeguato, in un corpo che non amava, ma illuminata, in alcuni brevi periodi, da rapporti amorosi importanti e dal legame con lo scrittore Max Brod, che deciderà, dopo la morte di Franz Kafka, di pubblicare i manoscritti che secondo le volontà testamentaria dell’amico avrebbe invece dovuto distruggere.



Ma soprattutto, una vita costantemente accompagnata dalla scelta di affidare alla carta il suo modo di essere, il suo percepirsi come un “mostro”, per tornare al disgustoso protagonista della sua opera più famosa. Forse un’autoanalisi, la sua, forse l’essere ontologicamente fatto per scrivere,  forse uno sfogo nero su bianco per vedersi come un “mostro” che, però, con tenacia, non riesce ad arrendersi alle “spine” che la vita gli ha riservato e trova nella letteratura il suo modo di lottare contro di esse, come ci spiega Lucia Salvato, ricercatrice di tedesco nella Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere dell’Università Cattolica di Milano, che ama proporre i racconti dell’autore ai suoi studenti.



Kafka è da sempre considerato un autore un po’ pesante, che in non molti scelgono di leggere, soprattutto frenati dalle situazioni inverosimi – kafkiane, appunto – da lui spesso presentate. Perché ha senso proporlo agli studenti? 

Concordo con il fatto che di primo acchito approcciarsi a un’opera di Kafka possa risultare  per alcuni un po’ ostico. Questo però dipende molto dal fatto che i più conoscono Kafka solo attraverso i racconti più paradossali, come La metamorfosi: è certamente difficile immedesimarsi in uno scarafaggio! Quello che sorprende non è tanto la lingua, che nell’originale tedesco è piuttosto semplice, con la quale egli veicola i temi proposti; è più la modalità con la quale egli tratta i contenuti che rende difficile l’immedesimazione. Perché le cosiddette situazioni kafkiane sono in realtà quasi metafore di esperienze fatte nella vita quotidiana, che pertanto non risultano immediatamente riconoscibili e quindi sono viste come assurde. In esse, però – ho constatato proponendo qualche testo ai miei studenti – ci si può riconoscere.



Mi faccia un esempio che spieghi meglio il concetto.

A lezione abbiamo analizzato il racconto Gemeinschaft (non ne conosco la traduzione ufficiale, ma potrebbe essere “comunità”), che tratta la storia di cinque amici che vengono fuori da una casa e si mettono in fila uno accanto all’altro vicino al cancello. Non appena un sesto vorrebbe aggiungersi al gruppetto, questi glielo vogliono impedire perché una persona in più sconosciuta risulterebbe solo scomoda. Il racconto inizia con questa situazione tipicamente assurda, eppure, una volta lette con attenzione le parole e le domande che Kafka pone (forse più a se stesso che ad altri), tutti e 40 gli studenti hanno ammesso di aver vissuto almeno una volta nella vita una circostanza simile.

Quindi, al di là dei pregiudizi, Kafka non è poi così… kafkiano. 

Certamente alcuni racconti e i romanzi possono presentare difficoltà al lettore, ma a chi si accosta alle sue opere senza preconcetti, rendendosi disponibile e rileggere anche due o tre volte un racconto, interrogandosi su come avrebbe agito in quella situazione strana perché descritta con metafore, ma in fin dei conti rintracciabile nella quotidianità, viene pungolato da domande sulla sua stessa vita. Per poi scoprire che sotto c’è qualcosa che va oltre al semplice dolore di Kafka per il suo sentirsi incompreso.

Era un uomo sofferente ma non disperato, mi sta dicendo? 

C’è sempre un punto che fa capire che Kafka non è una persona che si lascia andare: c’è sempre, in ultima analisi, qualcosa che gli impedisce di cedere alla disperazione per le brutture della sua esistenza.

E cos’è questo punto? 

Credo, da un lato, che un elemento base del suo modo di guardare la realtà sia il suo essere ebreo, e la sua religione gli offre una speranza che sempre resta alla base di ogni circostanza, anche la più drammatica (come accade in alcune scene iniziali del film Train de vie). Non mi pare che Kafka usi spesso la parola speranza, ma in alcuni racconti, come in Eine kaiserliche Botschaft (Il messaggio dell’imperatore), il protagonista è un uomo che sta alla finestra in attesa di questo messaggio, che pare non arrivare mai a destinazione a causa dei numerosi ostacoli lungo la via. Eppure lo attende, sta alla finestra con una certezza che quel messaggio prima o poi arriverà, ma questa certezza al lettore meno attento (che conosce i numerosi ostacoli descritti) risulta assurda.

Una speranza che non fa cedere. 

Esatto: come il suo personaggio, nemmeno Kafka desiste. Soffre moltissimo: avrebbe potuto trovare una soluzione al suo male suicidandosi, eppure non lo fa, perché – in fondo – era attaccato alla sua vita, amava quel poco che aveva e che riusciva ad avere. Nulla gli ha mai permesso di cedere alla disperazione, continuando a descrivere, con la scrittura, quella vita che lo tormentava, ma alla quale è rimasto attaccato fino all’ultimo istante lui si vede come un mostro, come il famoso maggiolino de La metamorfosi, ma è un mostro che continua a lottare; per questo bisognerebbe leggere Kafka almeno con profondo rispetto.

(Maddalena Boschetto)