Che anche da un meccanismo farraginoso possa sempre fiorire qualcosa d’interessante è, forse, il primo insegnamento dell’ultimo Premio Strega 2013: ha trionfato, giustamente, Walter Siti con il suo ultimo romanzo Resistere non serve a niente; giustamente, perché l’operazione letteraria di Walter Siti – azzardata, discutibile, provocatoria e spesso (auto)compiacente – è certo fra le più interessanti degli ultimi anni. Lo è (e questo è un paradosso non troppo felice ma necessario) non tanto in virtù di quello che dice ed esprime, ma per l’urgenza che lo porta a dire e ad esprimere: c’è una drammaticità, in Siti, esplosiva, autentica; una disperazione che incrina la scrittura e le imprime una vertigine («A San Niccolò il rosso del tramonto cede al rosso dei catarifrangenti: la mia esistenza è ridotta a ciò che le manca»). Walter Siti è uno che – dice – «se si chiede perché, poi magari si risponde».
Nato a Modena nel 1947, docente universitario di Letteratura italiana contemporanea a Pisa e all’Aquila, curatore dell’opera omnia di Pier Paolo Pasolini nei «Meridiani» Mondadori, sin dal suo primo romanzo, Scuola di nudo (1994), Walter Siti sembra aver avuto un solo, unico e ossessivo tema: la pulsione omoerotica, e – nello specifico – un’indagine sulla prostituzione e l’erotismo maschile, nella forma di quelli che lui chiamò i nudi angelici, o nudi assoluti: culturisti, uomini che lavorano sul e con il proprio corpo fino a oltrepassare quelli che apparirebbero i limiti formali della prestanza fisica. Il personaggio che li insegue e li cerca, paga e consuma, s’innamora e soffre per loro è un “Professore che si chiama Walter Siti”: l’autore stesso, quindi, che viene a porsi come personaggio-controfigura della propria stessa opera; un “io potenziale” in cui la categoria del “realmente accaduto” e quella della pura possibilità si confondono fino a risultare inestricabili. Ma questa forsennata adorazione per i corpi maschili nasconde, in Siti, non una frivolezza, né una semplice pulsione erotica; ma un vivere come mancanza, una rabbia data dal desiderio – e il desiderio è un desiderio di bellezza, di perfezione, d’infinito e felicità.
Scrive lui stesso (ogni suo romanzo è in prima persona, né potrebbe essere altrimenti): «Come in tutte le tossicodipendenze, è in atto un’escalation: il nudo che mi scuote dev’essere sempre più gigantesco, come se avesse più muscoli di quelli previsti dalla natura. I muscoli fanno ritornare indietro, verso la nostalgia dello sferico, il laborioso travaglio dell’evoluzione. Il troppo è più vicino al niente che il qualcosa; coi nudi ciclopici, i gesti consentiti dall’anatomia e dalla fisiologia risultano desolatamente poveri rispetto all’assolutezza del desiderio: l’unico atto d’amore all’altezza di corpi così è il non sapere che farci. La mia prima passione è stata per la brezza, i nudi sono venuti più tardi» (Scuola di nudo, p. 483); e lo stesso concetto verrà espresso dodici anni dopo, nel romanzo Troppi paradisi, quando – rivolgendosi a Marcello, un giovane culturista per cui Walter ha perso la testa – esprimerà questa nostalgia, questa bellezza che sfocia in un’incompiutezza che ha la forma di una nostalgia: «Tu mi manchi un quarto d’ora dopo che te ne sei andato; anzi, mi manchi anche adesso». «Mi affascinate perché trasferite sul fisico la ricerca di dio», dice sempre a uno di questi culturisti (Scuola di nudo, p. 393). «Siamo sempre la finzione di qualcuno (…) Cerchiamo, cerchiamo, ma cosa?» (La magnifica merce, 2004, p. 155).
L’estenuata, tormentosa passione per gli escort è spia di un bisogno, di una necessità più grande anche del correlativo stesso (il corpo maschile) che l’ha provocata («Tanto dolore per ottanta chili di proteine ben congegnate; penso “vivere la mia vita”, come se la vita potesse essere di qualcuno»). È lo stesso Siti a cercare questo livello più ampio, un orizzonte di significazione che non si fermi alla autoreferenzialità del desiderio, ma ne illumini la logica interna. La pulsione omoerotica diventa quindi il trampolino per una domanda sull’essere, il sintomo di un’ansia dolorosa di cui la bellezza dell’uomo non è che un segno, un testimone: «Quando gli escort stanno per suonare alla porta, la tensione quasi dolorosa è dovuta al bisogno di tacitare un’ansia, più che di appagare un piacere – il bisogno che mi ha ossessionato per tutta la vita, di un possesso impossibile, di una lotta mortale con l’ignoto, si calma per mezz’ora: un esemplare, un messo di quell’ansia è lì, e grazie ai soldi posso piegarlo (pregarlo) come voglio. È per questo che l’Occidente compra tanto?» (Troppi paradisi, p. 214).
Lo scatenamento della sessualità diventa quindi non il fine, ma il mezzo per entrare nel cuore, nel culmine di una domanda: quel punto in cui si tocca «la venerazione per ciò che è extraumano ed extratemporale, il rifugio dove ogni competizione si brucia e l’eros diventa preghiera». «Ho ogni tanto, a lampi, l’intuizione che il sesso, per manifestarsi davvero, abbia bisogno della speranza in un’altra vita» (Troppi paradisi, p. 99). L’oscura vocazione del perché siamo fatti emerge, drastica quanto amara, come risposta a una domanda dell’amico Marcello sul motivo per cui l’uomo è sulla terra: «Per capire, siamo tra i pochi aggregati di cellule nell’universo attrezzati per capire; è la nostra condanna; nel riprodurci e nel soffrire siamo già meno soli».
(1 – continua)