In questi anni si è molto discusso, in ambiti tra loro differenti, di quella che è stata definita la “questione antropologica”. Ebbene, rileggendo le sobrie pagine, di serena bellezza, della Lumen Fidei, appare, a mio avviso, con chiarezza, che in realtà, anche per la prospettiva filosofica, il problema antropologico è in primo luogo il problema cristologico. Abbiamo forse trascurato, come credenti, impegnati in un tavolo da gioco in cui chi distribuiva le carte non eravamo noi, che nella storia dell’umanità la prima e autentica svolta antropologica avviene con l’annuncio cristiano. Non è possibile ignorare che nella figura di Cristo si prospetta un nuovo modo di pensare sia l’uomo, sia Dio.



Come già ricordava Romano Guardini, quell’enigmatica espressione che voleva l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, posta in una tradizione in cui di Dio non si ha immagine, né nome pronunciabile, si scioglie nell’evento dell’Incarnazione e della Resurrezione, nel quale Dio rivelandosi mostra all’uomo il suo vero volto. Ancora oggi quest’affermazione risveglia la ragione umana dal duplice torpore dell’agnosticismo e del fideismo delle piccole consolazioni private: una faccenda che ha che fare con la storia personale e collettiva dell’uomo non può essere recintata nel terreno delle semplici opzioni, e la filosofia, come per secoli ha fatto, dovrebbe riprendere l’interrogativo sul rapporto tra uomo e Dio lasciandosi almeno interrogare su quanto di nuovo e inesplorato potrebbe dire se solo rifuggisse dalla pigrizia del ripetere il già detto.



La ragione e la fede, come modi del dire e del vivere, si incontrano in primo luogo sul terreno comune dell’esperienza sensoriale, di quel vedere, ascoltare, toccare, camminare, che nell’ Enciclica sono i verbi che introducono alla presenza di Dio. La luce della fede, va subito detto, è Cristo, che nel Vangelo di Giovanni si presenta così “Io sono venuto nel mondo come luce” (I).

Soltanto avendo ben presente questo incipit dell’Enciclica Lumen Fidei si può comprendere che non ci troviamo di fronte a una teoria sull’esistenza di Dio, ma, al contrario, alla narrazione di un’esperienza di Dio che si rende concreta anche oggi, attraverso quanti, a partire da Papa Francesco, ne sono testimoni. Un magistero vivente, che è consapevolezza e storia: l’Enciclica afferma che la fede «procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione» (4).

In Cristo l’immagine della luce si salda con quella del “dono”. Alcuni commentatori hanno sottolineato la problematicità di questa figura, evocando una sorta di arbitrarismo divino che privilegerebbe alcuni rispetto ad altri: in realtà la libertà di Dio è proprio nell’essersi fatto “dono” a tutti gli uomini in Cristo, luce del mondo e della storia.

Di questo dono si partecipa in primo luogo avendone notizia attraverso la testimonianza degli uomini, che ne sono fragili portatori: da qui la centralità della Chiesa e della trama di relazioni umane che rendono visibile e vivibile l’oggi di Dio. In tutta l’Enciclica emerge la concretezza della relazione con Dio come un insieme di gesti che avvengono nel tempo e con il tempo, segnato dalla promessa della fedeltà di Dio e dalla fisicità della dimensione della fede, che sembra culminare nella possibilità, per il cristiano, di «avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito» (21).

In fondo, per chi voglia leggere l’Enciclica senza avere la preoccupazione di misurarla secondo le proprie aspettative e ortodossie, c’è ancora molto su cui pensare. Ed è perciò significativo il riferimento al passo di Nietzsche – che mai si sarebbe aspettato di essere citato in un’Enciclica – in cui egli pone la sorella Elizabeth di fronte a un bivio: accontentarsi della fede come consolazione o diventare discepolo della verità che non smette mai di indagare. Papa Francesco annota che, dopo aver condannato la fede come luce illusoria, l’uomo contemporaneo ha pensato «di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva più illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze» (3).

Così la fede è diventata luce soggettiva, «capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiare il cammino» (3). Ma questa riduzione intimistica e fideistica ha travolto la stessa ragione autonoma che invece di porsi mete alte e obiettivi grandi si è essa stessa frantumata in mille fiammelle, con le quali ognuno percorre un pezzo di strada.

La luce della fede illumina anche la ragione non perché la sovrasta e l’annulla, ma perché la stimola a non accontentarsi dell’esperienza della sua finitezza. In questo senso, anche oggi si deve dire che la questione seria per la filosofia e l’antropologia resta Cristo, che mostra che la piena comprensione della soggettività umana avviene, anche nella storia, soltanto dentro la costitutiva relazione con Dio.