Almeno dal Settecento in avanti, un organico rapporto con l’Austria ha caratterizzato la storia di una parte molto significativa del nostro Paese – si pensi soprattutto, ma non solo, al regno Lombardo-Veneto –, anche se poi tutto ciò è stato rimosso o interpretato esclusivamente come un ostacolo nel provvidenziale cammino verso lo Stato nazionale. Oggi, per l’italiano medio, il simbolo della monarchia asburgica rimane l’imperatore Francesco Giuseppe I, il cui lungo regno, iniziato nella tempesta del 1848, si concluse nel 1916, mentre infuriava la tragedia che avrebbe condotto l’Europa al collasso. Molto meno noto rimane il suo successore, Carlo I (1887-1922), il sovrano che fece tutto quanto era nelle sue possibilità per porre fine alla Grande guerra ed è stato beatificato da papa Giovanni Paolo II nell’ottobre del 2004.
Rievochiamo la figura di Carlo d’Asburgo con un interlocutore d’eccezione, Sua Altezza Imperiale e Reale l’arciduca Martino d’Austria Este, nipote dell’ultimo imperatore d’Austria.
(Domanda) Tra il novembre del 1916 e il novembre del 1918, mentre si consumava la finis Austriae, l’antica monarchia asburgica, quasi come suo canto del cigno, mostrava al mondo di allora, impegnato in una guerra folle e poi in una pace male ideata e peggio realizzata, la splendida testimonianza del suo ultimo sovrano, Carlo I, un uomo che concepì sempre l’autorità di imperatore e re come una responsabilità nei confronti dei suoi popoli e che cercò, anche contro ogni speranza, di porre fine al conflitto mondiale. Altezza, a Suo avviso in che misura i contemporanei riuscirono a comprendere e apprezzare una personalità fuori dal comune come quella di Suo nonno? Quanto l’isteria nazionalistica e i pregiudizi ideologici hanno contribuito alla sua damnatio memoriae?
(Risposta) Quando mio nonno salì al trono era diffusa in tutta la monarchia austro-ungarica una grandissima simpatia per il “giovane imperatore” (non aveva ancora trent’anni in quel momento): il popolo conosceva la sua bontà d’animo e le sue virtù e guardava a lui con grandi speranze, soprattutto per quel che riguardava la fine del conflitto mondiale e una riforma dell’assetto della duplice monarchia. La gente apprezzava molto il carattere aperto e diretto del nuovo sovrano – tante foto dell’epoca lo ritraggono mentre si intrattiene a parlare con semplici soldati al fronte o con persone umili – e comprendeva quanto Carlo e la consorte Zita sentissero profondamente la responsabilità di alleviare le sofferenze dei tanti popoli che abitavano l’impero. D’altra parte non mancavano, in ambito politico ed economico e tra i “poteri forti”, gruppi che erano ostili al nuovo imperatore e, non comprendendo o non condividendo la sua visione della monarchia danubiana – più compiutamente federale e meno legata alla Germania – lo consideravano un uomo debole e bigotto, influenzato dalla moglie. I soldati, ad esempio, amavano l’imperatore Carlo per il suo coraggio e la sua sincera preoccupazione per le loro condizioni di vita al fronte, ma anche nell’alto comando c’era chi lo guardava con sospetto, condividendo con gli alleati tedeschi una folle fiducia nella vittoria finale. Tra i nemici dell’Austria-Ungheria, poi, si diffuse un’immagine caricaturale dell’imperatore propagandata a fini bassamente politici o più sottilmente ideologici, ma nonostante tutto ciò la sua testimonianza non fu mai dimenticata.
Mio nonno era ancora un bambino quando un gruppo di persone aveva cominciato a pregare regolarmente per lui; a partire da questa iniziale lega di preghiera nacque in seguito la Gebetsliga Kaiser Karl, cioè la Pia unione di preghiera Imperatore Carlo per la pace tra i popoli, che ha svolto un ruolo importante nell’iter che ha portato alla beatificazione dell’imperatore Carlo. Perseguitata dal nazional-socialismo – Adolf Hitler, com’è noto, odiava gli Asburgo e tutto ciò che la vecchia Austria aveva rappresentato –, attualmente la Gebetsliga è diffusa in tutto il mondo e svolge un lavoro prezioso, a livello culturale ed ecclesiale, finalizzato anche a una migliore conoscenza del profilo spirituale, umano e politico di Carlo I.
Ai nostri giorni trova che stia rinascendo l’interesse nei confronti dell’ultimo imperatore? Questo avviene anche in Italia?
La beatificazione celebrata nel 2004 ha risvegliato l’interesse di molti, anche dal punto di vista storico. In questo senso anche in Italia, grazie al ramo italiano della Gebetsliga Kaiser Karl, si sta riscoprendo un personaggio che in precedenza la cultura ufficiale, in ossequio allo spirito risorgimentale e nazionalistico, aveva schernito e disprezzato, ma in realtà era un capo di Stato, soldato, sposo e padre di famiglia che ha sempre cercato di fare il suo dovere alla luce della fede in Cristo. Mi piace ricordare le parole di Giovanni Paolo II: «Fin dall’inizio, l’Imperatore Carlo concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli. La sua principale preoccupazione era di seguire la vocazione del cristiano alla santità anche nella sua azione politica. […] Sia un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica!».
Al di fuori dell’ufficialità, Carlo I fu un marito e un padre di famiglia molto affettuoso. C’è qualche aspetto della dimensione intima della sua personalità che nella Sua famiglia viene particolarmente ricordato?
Ci rimane la vivida immagine di un uomo dalla grande fede in Dio, profondamente legato alla moglie, di cui era innamoratissimo, e ai figli, che, nonostante la morte prematura, educò prima di tutto con l’esempio personale. Per il resto il nonno era un autentico gentiluomo, sempre pieno di attenzione verso gli altri senza distinzione di rango, affascinante e dotato di senso dello humor; era un eccellente cavaliere, ciclista e cacciatore e amava le camminate in montagna…
L’imperatore Carlo fu costretto all’esilio e alla perdita di tutti i suoi beni, compresi quelli familiari, per essersi rifiutato di firmare la sua abdicazione, per lui inaccettabile: in ciò era stato fermamente appoggiato dalla consorte Zita. Dopo la morte in esilio dell’imperatore nel 1922, qual è stato il ruolo dell’imperatrice Zita, di cui è ora in corso il processo di beatificazione, nel tenere le redini della famiglia in anni drammatici? Quale ricordo ha di Sua nonna, che, essendo nata a Villa Pianore, vicino a Lucca, e appartenendo alla dinastia dei Borbone Parma, aveva robuste radici italiane?
Mia nonna era una persona straordinaria. Era rimasta vedova in giovane età, senza mezzi, con otto figli piccoli – l’ultima nacque dopo la morte del padre – e la responsabilità del pesante retaggio dinastico degli Asburgo sulle sue spalle. Chiunque in una situazione del genere si sarebbe perso d’animo. Ma lei ha guardato avanti con un coraggio quasi innaturale, che nasceva dalla sua fede e dal ricordo amorevole del marito, che portò sempre ad esempio al primogenito Otto, a mio padre Roberto e agli altri figli.
Nell’imperatrice Zita un carattere gioioso e pieno di umanità conviveva con un’autodisciplina e un senso del dovere inflessibili: espressioni come «ho diritto a…» per lei non esistevano. Allo stesso tempo non si lasciò mai vincere dal rancore verso chi le aveva voltato le spalle. Già in età avanzata, leggeva ogni giorno quattro o cinque quotidiani in lingue diverse per tenersi informata e seguiva personalmente l’educazione religiosa di tutti i nipoti. Senza quello spessore spirituale che la accomunava al marito non ce l’avrebbe mai fatta. Quando morì, nel 1989, all’età di quasi 97 anni, nonostante i perduranti difficili rapporti tra gli Asburgo e la repubblica austriaca, mia nonna ebbe delle esequie solenni, degne di un’imperatrice e di una persona come lei. Come ai vecchi tempi, il suo feretro fu portato processionalmente alla Cripta dei Cappuccini e migliaia di persone, tra cui moltissimi giovani, presero parte alla cerimonia. Nei giorni che precedettero il funerale vi fu un tale afflusso di persone desiderose di renderle omaggio che si decise di tenere aperte anche di notte prima la chiesa del monastero di Klosterneuburg e poi la cattedrale di Vienna.
Pur con tutti i suoi problemi, anche gravi, di coesione interna, tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la monarchia austro-ungarica si presentava come una compagine economicamente in crescita, articolata in regioni che godevano di autonomie e parlamenti locali. Un impero nel quale una dozzina di popoli che parlavano altrettante lingue e professavano religioni diverse convivevano in maniera sostanzialmente armonica – almeno in confronto con quanto accadde dopo il 1918 – sotto la guida di quella che lo storico Adam Wandruszka ha chiamato la dinastia «più europea e più cattolica» di ogni altra. Alle soglie del centenario della guerra che pose fine al vecchio impero, qual è il retaggio che quest’ultimo ci lascia? Cos’ha ancora da dire quella che è stata la civiltà mitteleuropea all’Europa di oggi?
Per l’imperatore Carlo questo aspetto della monarchia danubiana, un luogo in cui popoli diversi potessero convivere pacificamente con comuni benefici, ma conservando ognuno il proprio patrimonio culturale, linguistico e religioso, era fondamentale e si proponeva anzi di renderlo ancora più coerente ed organico facendo dell’impero una vera confederazione di popoli legati tra loro da un sistema politico comune e da un’unione doganale. Per il resto, direi che la civiltà mitteleuropea ha lasciato una traccia profonda nei territori che appartennero alla duplice monarchia e nei cuori dei loro abitanti, una traccia che non è stata cancellata del tutto dal nazionalismo, dal nazismo né dal comunismo. Si tratta di un inconfondibile clima culturale… Ad esempio se uno va a Košice, nella Slovacchia orientale, quasi al confine con l’Ucraina, trova una splendida cattedrale gotica in stile tipicamente occidentale! Allo stesso tempo la città è sede di una diocesi greco-cattolica (di rito bizantino)… Ovunque, insomma, si percepiscono radicate identità culturali che convivono con un invincibile senso di appartenenza a un’ecumene che va ben oltre gli attuali angusti confini.
All’impero sono subentrati gli Stati nazionali, poi è venuta un’incerta integrazione europea e la sovranità degli Stati appare oggi sempre più in difficoltà e limitata. Dove ci porterà questa nuova forma di “sovranazionalità”? Può basarsi soltanto sulla Banca centrale europea e sulla moneta? E ancora: può andare lontano un’Europa tecnocratica, che ripudia le sue radici cristiane in favore di una sorta di “pensiero unico” relativista?
L’attuale Unione europea non è affatto l’Europa, ma soltanto un’unione di carattere meramente economico. Molto limitata anche dall’assenza, tra l’altro, di una politica estera comune. Direi che a questo punto ci sono due scelte possibili, la prima delle quali è un tentativo di omogeneizzazione dei diversi Paesi europei nell’ottica di una specie di supernazionalismo: tutto uguale per tutti, senza distinzioni di carattere storico e culturale; questa via non è percorribile, perché necessiterebbe di un apparato burocratico enorme e disumano. I nostri sforzi devono invece tendere verso un’Europa confederale, rispettosa delle specificità di ogni Paese e fondata sul principio di sussidiarietà. Certo, considerate le premesse viste fino ad ora, non sarà un obiettivo facile da raggiungere. A monte di tutto ciò resta il fatto che un albero non può svilupparsi senza forti radici. E la negazione delle radici cristiane della nostra civiltà rimane il più grave peccato d’origine del governo europeo. Cosa potrà mai essere un’Europa senz’anima, fondata solo sul culto dell’economia e sulle leggi del mercato? Senza cristianesimo, l’Europa semplicemente non esiste.
(Ivo Musajo Somma)