Di recente papa Francesco ha ancora una volta richiamato la Chiesa a una testimonianza energica e diffusa che non ha esitato a definire, anche nella sua forma quotidiana, come lavoro e, più specificamente, come martirio: “Il martirio è questo: fare la lotta, tutti i giorni, per testimoniare. Questo è martirio. E ad alcuni il Signore chiede il martirio della vita, ma c’è il martirio di tutti i giorni, di tutte le ore: la testimonianza contro lo spirito del male che non vuole che noi siamo evangelizzatori”. (Discorso ai partecipanti al convegno ecclesiale della diocesi di Roma). 



Questa straordinaria e attualissima prospettiva di comunione, che avvalora tutti i gradi di sacrificio vissuti nella gratitudine e nell’annuncio di Cristo, ha un suo eccezionale riscontro figurativo nel Giudizio Universale di Michelangelo. Quando, alla vigilia di Ognissanti del 1541, venne scoperta la parete di fondo della cappella Sistina, i prelati si trovarono di fronte a un radicale sommovimento della tradizione. Da secoli il giorno del Giudizio era raffigurato nella statica forma di un solenne tribunale, ordinato in disposizione gerarchica. Al contrario, Michelangelo immagina l’impeto sconvolgente della venuta definitiva del Figlio di Dio, che attira a sé tutti i beati mentre al di sotto si consuma l’esito del giudizio, dichiarato dagli angeli e fisicamente impresso dal gesto di Cristo. 



Le “schiere” non mancano, ma la loro posizione e il loro ruolo vengono rimescolati e reinterpretati. La compagine che acquista una rilevanza del tutto particolare è proprio quella dei martiri. Innanzi tutto, due di loro, San Lorenzo e San Bartolomeo, chiudono, o meglio “fondano”, la “candida rosa” di beati che più vicini si stringono attorno a Cristo e alla Vergine. La loro rilevanza compositiva è pari a quella di San Giovanni Battista e di San Pietro, rafforzata dal primissimo piano e dalla sospensione sul vuoto celeste. Inoltre Bartolomeo brandisce la pelle che porta nel volto il ritratto dello stesso Michelangelo, attuando una personalizzazione dell’avvenimento al cui livello ognuno di noi è chiamato a riconoscersi. 



Subito alla destra di Bartolomeo si distende una schiera di martiri, tutti identificabili per gli strumenti dei supplizi, qui vanificati nella loro destinazione di tortura dalla forza e dallo splendore dei corpi dei loro referenti. Sono martiri gloriosi, corpi “sub specie resurrectionis”, in alcuni casi malamente appiattiti dalle coperture censorie. Nel Giudizio, l’esibizione degli attributi iconografici – generalmente evitata da Michelangelo, come si vede nelle Sibille e nei Profeti della volta, riconoscibili solo dai nomi incisi sui basamenti – è peculiarità quasi esclusiva dei martiri, che diventano le figure più facilmente riconoscibili nella folla sterminata dei beati. 

In uno scorcio tra i più arditi della pittura michelangiolesca, la sequenza viene chiusa sul limite destro della parete da Simone di Cirene, portatore della croce di Cristo, il primo a condividere fisicamente il sacrificio estremo di Gesù e quindi figura ideale di riferimento per ogni martire.  

L’evidenza iconografica e compositiva della schiera dei martiri, supportata da una impressionante tenuta formale, a lungo esercitata sui disegni preparatori, trova conferma nella loro particolare collocazione nell’articolazione complessiva del Giudizio. I martiri segnano infatti il confine tra il Paradiso e l’Inferno, baluardo invalicabile tra il mondo dei beati e quello dei dannati, alla stregua delle torri che difendono la Gerusalemme celeste. Alcuni di loro guardano verso Cristo, altri invece si sporgono sulle nuvole e sembrano rivolgere gli stessi strumenti del martirio sull’inutile tentativo dei dannati di fuggire all’attacco incrociato di angeli e demoni. I martiri, infatti, non rappresentano solo la difesa certa e inespugnabile del mondo dei beati, ma si pongono come primo termine di paragone nel giudizio delle anime risorte avendo collaborato all’opera di Cristo fino a condividere il sacrificio della croce. Se è vero che il gesto imperioso del braccio destro di Gesù determina il dinamismo di tutta la scena e l’allontanamento definitivo dei dannati, lo sguardo – “sereno e imperscrutabile”, lo ha definito Fabrizio Mancinelli avendolo sotto gli occhi per giorni interi durante il restauro – sembra dirigersi carico di compassione proprio verso i compagni martiri.

Come ha fatto uno studioso americano, Charles Burroughs, l’interpretazione potrebbe inoltrarsi. I martiri raffigurati da Michelangelo sono tutti titolari di importanti chiese stazionali romane, così come le figure di San Giovanni Battista e San Pietro, rispettivamente alla destra e alla sinistra di Cristo, si legano alle due basiliche papali del Vaticano e del Laterano. Risultano inoltre patroni di corporazioni e confraternite attive in città, legate a specifiche professioni e attività assistenziali. In tale prospettiva l’evidenza dei martiri nel Giudizio va a toccare temi significativi nella controffensiva cattolica alle contestazioni luterane, dal ruolo della sede apostolica romana al valore delle opere nella vita cristiana. Per ora fermiamoci al livello paradigmatico del martirio rappresentatoci da Michelangelo, al quale ognuno di noi, come ci ha detto papa Francesco, è chiamato come a un lavoro.