«Se per eternità – scrive Ludwig Wittgenstein – si intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive l’eterno colui che vive nel presente» (Tractatus, 6.4311). Col suo modo secco semplice e diretto, il filosofo austriaco mostra che vi sono almeno due modi di pensare l’eternità: come infinita durata e come intemporalità. Cosa intende dunque Emanuele Severino, quando scrive, sul Corriere della Sera, che «la consistenza del passato è implicata dall’Eternità di ogni cosa»? (Lascio ai cultori del mistero scoprire cosa qui aggiunga la maiuscola al termine «eternità»).
Severino stesso, comunque, chiarisce che non si tratta di infinita durata nel tempo. La sua tesi va interpretata, scrive: «Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo». Una tale interpretazione sarebbe, del resto, difficile da difendere in maniera plausibile con l’interlocutore che avesse quel po’ di tempo che serve per arrivare al tramonto. L’eterno consisterebbe allora, si può supporre, nell’intemporalità: è questa un’interpretazione che pare più semplice e facile da difendere. Essa, detto a latere, mi pare che renderebbe il pensiero di Severino compatibile col creazionismo cristiano, infatti qualcosa può essere eterno (nel senso dell’intemporalità), eppure dipendente ontologicamente da Dio.
L’eternità in Severino però è incompatibile col cristianesimo per l’indisponibilità dell’autore a scindere tra eterno e indipendente. Egli infatti non ammette che l’eterno dell’essere limitato possa dipendere. Ad ogni modo, Severino stesso, nell’articolo sul Corriere, sembra piegare su una terza soluzione, cara a Nietzsche e radicata nel pensiero greco, di un eterno ritorno: «come ogni altra cosa è destinata a ritornare». L’eternità consisterebbe in un ciclico riproporsi di ciò che non ha smesso di essere. L’ossessione di Severino per l’eterno, come è noto, gli impedisce di dare conto del divenire.
La ragione profonda dei limiti del pensiero di Severino circa la questione dell’eterno dipende dall’apparato categoriale super-semplificato che adotta: l’essere è. Se si accetta la sua ontologia, pur di entrare in discussione con Severino, si finisce per diventare vittime della sua abilità dialettica. La forza complessiva del discorso di Severino nasce dalla combinazione della sua capacità dialettica col fascino esercitato dalle tesi di contorno alla sua metafisica. L’analisi della filosofia occidentale, che Severino svolge a partire dalle proprie premesse (per esempio riguardo alla tecnica o al nichilismo), rende retoricamente suggestivo il suo discorso e finisce con l’avere un effetto giustificativo delle premesse stesse, almeno a un primo sguardo. Severino sa toccare molte corde sensibili nel lettore, come per esempio lo struggimento per l’eterno, la paura per la tecnica sempre più padrona dell’uomo, lo sgomento per il nichilismo della nostra epoca, la passione che suscita il linguaggio oscuro da lui usato, che allude e lusinga, facendo sentire il lettore un esegeta del mistero.
Non mi stupisce che in tanti si siano dedicati al pensiero di Severino, sia per la provocatorietà delle tesi metafisiche che propone, sia per l’interesse della cintura di considerazioni di contorno che svolge, sia per la modalità studiata in cui si presenta. Riconosciuto tutto questo, resta la domanda: è possibile chiudere definitivamente i conti col pensiero di Severino?
Per capire cosa succede con l’ontologia di Severino e quindi per farci i conti, propongo la situazione che segue, ispiratami dal capolavoro di Edwin A. Abbot, Flatlandia. In un mondo a due dimensioni, le ipotetiche conversazioni tra un quadrato e un triangolo, immaginandoli dotati di coscienza, riguarderebbero figure e rappresentazioni al più bidimensionali. Se una sfera volesse intersecarsi con quel mondo, per dare traccia della propria ulteriorità, finirebbe per offrirsi in esso bidimensionalmente, in forma di cerchio, o meglio nella forma della successione di un punto, seguito da una serie di cerchi concentrici prima crescenti, poi calanti, finendo in un punto. Nulla in quel mondo dunque, anche la presenza di un ente di per sé tridimensionale che volesse interagire, riuscirebbe a portare alla luce qualcosa di diverso da ciò che lì si può trovare.
Per tornare a noi, non si può convincere Severino dei limiti del suo pensiero. Ciò a maggior ragione in quanto lui si sente investito della missione di indicarci la verità (i suoi scritti indicherebbero la verità «come un dito indica la Luna»). A ogni tentativo infatti Severino reinterpreterebbe la critica ricevuta sulla base delle proprie categorie, così da riconfermare ciò che già pensa, una volta di più. Qualcosa del genere la farebbe un triangolo di Abbot che dicesse che non ci sono sfere, perché lui vede solo e soltanto cerchi concentrici.
In metafisica ci sono dei casi in cui, bisogna ammetterlo, il fatto di discutere non porta lontano: assumendo un punto di vista interno al pensiero dell’autore, la conversazione non porterebbe a nulla; assumendo un punto di vista esterno, invece, non si verrebbe capiti. Quello che servirebbe da parte di Severino sarebbe la disponibilità a una conversione, come quella del quadrato di Abbot il quale coglie che i cerchi concentrici che osserva sono il segno di un di più, di una ontologia più ricca.
Nel frattempo, per fare i conti con Severino bisogna riconoscere che la sua ontologia è una costruzione angusta. Dopo tutto, già solo l’ontologia sottesa da Abbot al mondo a due dimensioni, rispetto a quella di Severino, offre una varietà e una complessità mozzafiato e di maggiore interesse.