Robert Walser (1878-1956) non solo è annoverato dalla critica tra i più grandi scrittori svizzeri del Novecento, ma si ritiene ormai quasi unanimemente che egli rappresenti una delle voci maggiori della narrativa tedesca del secolo scorso, se non di quella novecentesca. Kafka, Musil, Canetti, Benjamin, Hesse, fra tanti altri, dichiararono da subito la loro ammirazione per la prosa di Walser, ma egli – durante la sua vita, quantomeno – non conobbe gran fortuna editoriale, né di pubblico. Di Walser è particolarmente apprezzata dai lettori la tersità d’una scrittura nitida e semplice – lieve e mai greve – che può venir gustata da chiunque, di qualunque estrazione sociale, culturale e d’ogni età. Di Walser affascina poi la facilità/felicità fabulatoria, tutta giocata su storie brevi che s’inanellano le une alle altre, pure nei romanzi.



Piacciono i suoi personaggi così freschi (al limite del naif); assai fragili e vulnerabili, certo, ma sempre pronti a riprendere il vagabondaggio, fidando nella vita. Walser – ebbe a scrivere Claudio Magris – “appartiene a quella generazione di scrittori nella quale si compie, con risultati di altissima poesia, la fondamentale rivoluzione della letteratura moderna ossia la disarticolazione della totalità e del grande stile classico”. Ma ciò comporta anche la messa in crisi del soggetto e la presa d’atto della presenza di un inquietante caos (nel mondo e nell’umana esistenza) che a molti e a lungo era apparso un cosmo. All’inizio del Novecento pare che il logos, la coscienza/razionalità tanto cara all’Occidente non riesca più a darsi ragione della insignificanza di una vita segnata da una precarietà minacciosa persino a livello dell’io. Un io che con Freud vede spalancarsi sotto di sé l’abisso d’un inconscio magmatico e senza fondo. Ed è giusto tale Abgrund, tale mancanza di fondamenta stabili cui ancorare il pensiero ad essere così destabilizzante.



I personaggi dei romanzi e dei racconti di Walser scelgono allora di non aggrapparsi più a nulla, vista l’inconsistenza di ogni ancoramento definitivo. Essi, affrancandosi da ogni sistematicità si fanno fluidi, scorrono, si smarriscono (ma non hanno poi nulla da perdere, tranne le loro illusioni) per le vie di un’erranza senza stelle fisse all’orizzonte. Nomadi e apolidi vagano privi di meta come dei Wanderer in fuga da ogni dimora o ruolo stabili. Certo, questi giramondo debbono presto o tardi sostare; ma lo fanno provvisoriamente. Giacché non amano mendicare, si guadagnano il pane facendo lavori umili, mettendosi a servizio di questo o di quello.



I protagonisti delle prose di Walser sono in ciò molto simili al loro autore, che cambiò cento mestieri e cento luoghi di residenza: sempre a corto di soldi, senza legami affettivi duraturi, e perennemente in transito (almeno fino all’approdo nella casa di cura di Herisau, presso la quale resterà per oltre un ventennio fino alla morte). 

Tuttavia un altro tratto davvero felice accomuna i cartacei alter ego del Nostro al Robert in carne ed ossa: l’esser sempre tesi a cogliere l’attimo, l’esser disponibili a vivere il presente con spensierata, grata accoglienza, rimanendo nell’hic et nunc, qualunque cosa l’ora e l’ambito o la fortuna arrechino loro.

Ciò non significa però essi risultino incoscienti, inclini alla rimozione oppure peggio ancora indifferenti/insensibili al disagio al dolore proprio o del mondo (Weltschmerz). Nulla di tutto ciò. Semmai vi è una sorta d’innocente candore in questi Wanderer affascinati da un laghetto montano, da un prato in fiore, da un paesaggio innevato; in questi eterni adolescenti che pure da adulti mantengono intatta la freschezza dello stupore di fronte alla sperduta radura d’un bosco (Waldwiese), quasi fossero in grado di cogliere l’anima mundi, di avvertire la presenza del divino in ogni cosa. Così i personaggi di Walser subiscono traversie, perdite e sconfitte senza turbarsi più di tanto, non rimanendo impensieriti nemmeno di fronte alla morte, anzi guardando ad essa come ad un compimento propizio dell’esistenza terrena.

Torno a dirlo, perché a mio avviso è basilare: nelle opere del Nostro non si rimuovono, non si esorcizzano il dolore, il perturbante, l’inquietudine che pur soffrono i protagonisti di tanti scritti walseriani. Si riscontra piuttosto un’accettazione religiosa nei confronti degli aspetti negativi del vivere che consente loro di abitarli con una arrendevolezza che può sconcertare chi la scambi per un rinunciatario ed ignavo subire. I personaggi dei racconti e in modo particolare dei romanzi walseriani (ma anche il loro autore di cui, come accennavo sopra, essi rappresentano in modo palese degli alter ego contraddistinti da un quasi sempre analogo modo di comportarsi e di pensare) possono quindi venir considerati religiosi in quanto, più che essere legati a/da una specifica devozione o teologia, si sentono semmai uniti strettamente al tutto; li avvince e li accomuna insomma l’amore per ogni aspetto del creato; li lega il sentirsi parte del mondo e di quanto esiste − ossia dell’essere − sprezzando l’egoità e, ritenendo illusoria la separazione per cui tutti noi saremmo monadi slegate le une dalle altre, essi avvertono piuttosto l’interdipendenza che ci unisce agli altri viventi ed alle cose (all’apparenza) inanimate. Così, amanti della fratellanza universale, si rivelano perciò caratterizzati da una religiosità/spiritualità che esprime un’anti-individualistica tensione inesausta all’uno e alla pienezza, ossia a Dio.

Francesco Roat è autore del saggio “La pienezza del vuoto. Tracce mistiche nei testi di Robert Walser”, Ed. Vox Populi, 2012.