Mentre le parole di Papa Francesco, nella loro essenziale limpidità, risuonano da un continente all’altro, mi stupisce la loro evidente incomprensione da parte di opinionisti e commentatori. A parte i tanti articoli di cronaca che hanno preferito concentrarsi su alcuni episodi, come la scelta del Papa di portare da sé il proprio bagaglio salendo sull’aereo per il Brasile, riducendo ogni gesto di Francesco ad un fenomeno di costume, si sono susseguiti tentativi di leggere nei discorsi del Papa precisi disegni politico-economici – è il caso di Riotta – o persino di intravedervi con sicurezza improbabili strategie di “governance” – termine abusato e spesso impropriamente adoperato, in questo caso da De Rita sul Corriere. Quello che mi preoccupa di più è che persino illustri teologi ed intellettuali non colgano il dirompente significato delle parole del Papa e tentino di ridurle alla “normalità” del linguaggio politico, filosofico o teologico.
Il teologo ed il filosofo sono impastati con la stessa creta: presumono di esprimere la verità assoluta su ciò che invece resta un mistero. Il mistero della vita segna un limite invalicabile alla pretesa del pensatore di esaurire nel linguaggio la verità del mondo; la teologia e la filosofia spesso ripropongono l’arroganza della conoscenza umana di fronte all’enigma che ci avvolge e che chiede di essere espresso attraverso la parola come amore incondizionato. Un teologo che stimo e con cui ho avuto la fortuna di discutere di alcuni miei libri, Giuseppe Ruggieri, spiega con bellissime parole che, nell’uomo Gesù, la liberazione dal male che opprime l’umanità è espressa attraverso una profonda partecipazione alla sofferenza umana. Eppure anche la sua Prima lezione di teologia cade in contraddizione, considerando Gesù come un grande teologo, narratore di una storia infinita, laddove invece le categorie teologiche e filosofiche ed il loro linguaggio non possono bastare a comprendere e ad esprimere il mistero. Solo la parola apocalittica “inchioda” ad una scelta, qui ed ora, eppure oltre il tempo.
“Francesco non si presenta come dottore, ma come pastore“, è questa la forza del suo messaggio, spiega in un recente commento essenziale ma intenso Leonardo Boff: “Parla partendo dalla sofferenza umana, dalla fame nel mondo, dagli immigrati africani sbarcati a Lampedusa. Denuncia il feticismo del denaro e il sistema finanziario mondiale che martirizza interi Paesi“. Ma nonostante parli della sofferenza in questo mondo globalizzato, il suo discorso non può essere omologato ai soliti discorsi ufficiali di questo mondo; le parole del Papa, pronunciate in questo tempo, sono al di là di esso, oltre il tempo storico, ci aprono ad un tempo messianico che, come direbbe Giorgio Agamben, contiene memoria e speranza, passato e presente, pienezza e assenza, origine e fine: “il tempo messianico, come tempo operativo, in cui afferriamo e compiamo la nostra rappresentazione del tempo, è il tempo che noi stessi siamo – e per questo, il solo tempo reale, il solo tempo che abbiamo“.
Eppure leggendo i più recenti commenti, da Ravasi a Mancuso, sembra che la Rivelazione del mistero della fede, così straordinariamente espressa dal Papa, sia secondaria rispetto al katéchon del tempo attuale; il linguaggio dei teologi resta un’ennesima versione del “ragionamento” occidentale, all’interno di una visione filosofica e politica del tempo storico. Vi è una sfasatura drammatica tra la chiacchiera giornalistica sul tempo attuale, in cui il linguaggio va gestito in funzione del potere, e la Parola del tempo messianico, un infinito di cui si scorge il mistero nella durata dell’istante in cui si manifesta. Per tornare ad Agamben: “il potere profano – Impero romano o altro – è la parvenza che copre la sostanziale anomia del tempo messianico. Con lo scioglimento del ‘mistero’, questa parvenza è tolta di mezzo, e il potere assume la figura dell’ánomos, del fuorilegge assoluto“.
Il linguaggio apocalittico di Papa Francesco è luce gigantesca e, insieme, rivelazione di una verità, non meno radicale, che rende ánomos ogni potere, persino il katéchon – potere che frena, come ci ricorda Massimo Cacciari. Il momento della decisione, del sì o del no, impone di non leggere le parole del Papa nei termini di un aggiornamento del katéchon, e di prendere consapevolezza dello scarto immenso tra religione codificata nel tempo storico e Rivelazione di Cristo, che esula dagli schemi teologici e filosofici del tempo. “La potenza si compie nella debolezza” (2 Cor. 12, 9-10). Come fa notare ancora Boff, “il nome Francesco è più che un nome, sta a indicare un altro progetto di Chiesa sulle orme di San Francesco d’Assisi: «Una Chiesa povera per i poveri», come ha detto, umile, semplice, con «l’odore delle pecore» e non dei fiori dell’altare. Per questo ha lasciato il palazzo apostolico per andare a vivere in un convitto, in una camera semplice, e mangia alla mensa con gli altri ospiti“.
In questo senso, la denuncia del dominio e della fascinazione del denaro, nei discorsi di Papa Francesco, non è mai riducibile ad un pauperismo da elemosina, ma è scelta fisica e metafisica che indica l’unica via possibile. Ancora Agamben ha messo in evidenza il carattere, per usare un concetto provocatorio, addirittura “religioso” dell’idolatria della moneta che caratterizza la nostra epoca. Ed in effetti la venerazione del denaro è pericolosamente simile ad un “credere” in qualcosa che oltrepassi la contingenza: se la società è dominata dall’espressione “credito”, ciò si può spiegare come “fede” in un adempimento futuro di una promessa di pagamento, ma anche col fatto che il “credito”, sciolto da ogni connessione con la propria radice linguistica, si presenta come strumento organizzativo dei rapporti sociali, del produrre e del consumare.
Una società che, come sosteneva Alfred Sohn Rethel, ha il denaro come unico principio di sintesi sociale – L’apriori in contanti – o che, come afferma Vittorino Andreoli, ha il denaro nella mente, non può che estenuarsi in una quotidianità insignificante. Se gli individui sono sempre più esposti alla paura di non sapersi dare una ragione per vivere, e attraversano continue esperienze di sofferenza, ciò ha a che vedere con questo modo di essere della società.
Rendersene conto significa anche avere un atteggiamento diverso rispetto alla crisi che sta attraversando il mondo occidentale: la svalutazione del valore del lavoro umano, il deperimento dei luoghi di socializzazione tradizionale, la dissoluzione della famiglia, l’imperativo dell’efficienza economica, l’assunzione del denaro a misuratore dell’esistenza, non sono accidenti secondari nella storia dell’umanità, che riguardano soltanto la contingenza del momento presente, ma indicatori di una più complessa e articolata relazione tra ciascun individuo e il mondo. Gli esseri umani non sono soltanto biologia, ma non sono neppure soltanto società; ciò che ciascuno sperimenta nella propria vita è un bisogno di relazione affettiva che trascende le circostanze contingenti, per aprire lo stare al mondo al confronto con l’infinito.
La sofferenza umana lega indissolubilmente la storia di ciascuno al senso dello stare al mondo e della destinazione di tutti gli esseri umani di fronte all’inevitabile percezione della caducità e della mortalità di tutto ciò che siamo e di tutto ciò che ci sta di fronte. In un tempo che è drammaticamente esploso, assumere come principio la comprensione della sofferenza è l’unica irriducibile possibilità, che trascende persino il pragmatismo empirico del rimedio, per aprire ad una nuova speranza. La scelta non è affatto tra una visione più o meno democratica del katéchon: è necessario sottrarsi ad una visione della religione come codice, poiché solo l’irruzione di forme non riducibili può creare una visione del mondo altra.