Mi chiamano in molti, e mi tengono parecchio tempo al telefono: secondo me è solo perché “hanno i minuti”. E ricevo pure una marea di sms: ne hanno mille al mese, forse centomila, e io sono uno di quelli con cui consumarli. Ancora per fortuna non sono finito su WhatsApp. Però, ovviamente, sto su Facebook: e tante volte mi illudo, tra post e notifiche, di avere un sacco di amici: mi pare 1952. Mi illudo, lo so: tanti di questi li avrò visti mezza volta, e se ci incontriamo al supermercato – ammesso che li riconosca – facciamo finta di non vederci. Fra qualche settimana sarà il mio compleanno, e mi intaseranno la bacheca con centinaia di auguri. È un automatismo, non possono non farmeli. Sembrerò ingrato se a mezzanotte non scriverò anch’io l’immancabile ringraziamento “strazzacore” del festeggiato? Ma tu che mi scrivi “buon compleanno Vale” mi chiameresti? Spenderesti degli euri per me? Soffro di una sindrome nuova: sento di rientrare nel pacchetto, di essere un segmento potenziale dei 10 euro mensili che la gente spende in abbonamento. Sta scomparendo la generazione di quelli che mi consideravano meritevole almeno di 16 centesimi tutti solo per me. Non so più quanto valgo. E anch’io, del resto, quando stanno per finirmi i minuti divento nervoso e latito perfino con mia moglie.



Allora sfuggo a questo mondo virtuale, ed esco, ma di nuovo non riesco a capire che cosa ci fa la gente insieme. Ce ne sono tanti, in piazza, nel corso, al bar, in fila alla cassa. Non mi sento mai solo più che in quei momenti. «Ché ciascuno di loro porta seco / la condanna d’esistere: ma vanno / dimentichi di ciò e di tutto, ognuno / occupato dall’attimo che passa, / distratto dal suo vizio prediletto» (Camillo Sbarbaro). Galleggiamo insieme nell’acquetta, in attesa del prossimo sciacquone: «Siamo alla solitudine di gruppo, / un fatto nuovo nella storia e certo / non il migliore» (Eugenio Montale). 



Ci si vede perché non ce la faremmo a stare da soli, a starcene a casa. Si parte da un vuoto, anziché da un pieno: da solo uno proprio non si sopporterebbe. Allora usciamo, ma non per un impeto, non perché non vedo l’ora di condividere proprio con te qualcosa che ho scoperto. Lo so che stai con me perché hai bisogno di stare con qualcuno, chiunque sia, perché ti passi il tempo: mica hai bisogno di stare con me. Per giunta è estate: e quanto tempo che c’è! Ma tu, se non avessi tutto questo tempo da riempire, staresti con me? Se domani dovessi andare a lavoro o a scuola, se avessi un esame o tre figli a casa, sacrificheresti un po’ del tuo tempo per me? 



«Facciamo bene a stare insieme stasera, facciamo bene perché è sabato sera», mi rimprovera la saggezza del mondo. Non devo menarmela, ci si vede “per stare insieme”: cavolo, ma un minimo di filosofia, al terzo anno del liceo, l’avranno fatta!? Stare insieme è un fenomeno, non uno scopo. Il per va messo dopo, non prima: “stare insieme per?“. Ci scambiamo parole destinate al tempo di una sera, e nemmeno, di qualche minuto: «Ma non v’è momento / che non gravi su noi con la potenza / dei secoli; e la vita ha in ogni battito / la tremenda misura dell’eterno» (Ada Negri, Tempo). Chi se ne accorge? Il tempo non ha peso, d’estate. Se ne può perdere, si può buttare. Tanto non ci insegue nessuno, possiamo alzarci quando vogliamo. Non c’è il lavoro a dettare gli orari: come se il datore di lavoro fosse appena il datore di lavoro o l’insegnante che rompe, come se chi ci dà il lavoro quotidiano non fosse Dio, come se alzarsi non fosse la risposta a Lui, ma al caporale di turno, d’inverno, e a nessuno d’estate. 

Chiacchiere da ombrellone, film messi lì, ogni estate sempre gli stessi, soprattutto da quando i canali sono diventati troppi, a moltiplicare la monotonia: Senti chi parla, tutta la saga evergreen della principessa Sissi, Bianco rosso e verdone. Me ne vedo uno, che sta lì, nel palinsesto, e che alla fine mi va pure bene. Ce ne convinciamo: che le cose ci piacciono, mentre ce le siamo fatte piacere. Entro in macchina e accendo la radio, in automatico: ho bisogno di sentire un po’ di musica, mica qualcosa di particolare, e alla fine mi arrendo all’ennesima stazione («in radio c’è anche un pezzo che mi va», canta Daniele Silvestri). Ce ne convinciamo: che le cose ci piacciono, mentre ce le siamo fatte piacere. Entro in macchina e accendo la radio, in automatico: ho bisogno di sentire un po’ di musica, mica qualcosa di particolare, e alla fine mi arrendo all’ennesima stazione. E vedo che anche in spiaggia la gente legge: qualunque cosa, basta leggere, che fa bene (ma mica darebbero la vita proprio per quel libro). Come chi viaggia perché d’estate si viaggia, quelli che «si lasciano viaggiare», diceva Lucio Dalla: “Dove andiamo quest’anno? Sharm, Grecia, crociera? O niente viaggi, per colpa della crisi?” Le isole greche non esistono in sé: è che quest’anno tocca a loro. Ancor più tragico è che nemmeno “niente viaggi” esiste in sé: è “colpa della crisi”. Cancellata l’ipotesi che si possa scegliere di starsene a casa. Il bisogno indotto di staccare la spina è così radicato che a non esserne intrappolati ci si sente in trappola. E allora, «mentre ognuno suona come gli pare e tutti suonano, come vuole la libertà», «di colpo ti viene il sospetto che in tutta la vita non hai mai scelto» (Giorgio Gaber).  

Bisogni indotti: di serate, di sms, di minuti, di chiavette internet, di parole, di canzoni, di gente. Il dubbio di non esistere, senza. Bisogni indotti come i cornetti alle 3 e mezza di notte quando attraversi l’Italia in pullman, e ti tocca la sosta in autogrill: avevi sonno, e la maledici, ma poi entri e ti viene fame, e fai pure il socievole. 

O come, risalendo in pullman alle 4 e un quarto, il bisogno indotto di strusciarsi, di posare la testa sulla spalla di un’altra, di pomiciarsi, con chicchessia. Per carità, i miei ormoni sono ormai in «quiete dopo [nemmeno] la tempesta». Ma sono pur sempre circondato, insomma: telefonate, messaggi, sms, film, cornetti, amici, serate, blablabla. Mi rubate la solitudine, maledetti! «E ho guardato la televisione, e mi è venuta come l’impressione che mi stessero rubando il tempo e che tu, che tu mi rubi l’amore. Ma poi ho camminato tanto e fuori c’era tanto sole che non ho più pensato a tutte queste cose». Caro Vasco, io non riesco neanche a non pensarci: mi rubano me, mi rubano! Dovrebbero ridarmi a me stesso, abbiamo bisogno di «RIavere noi stessi dagli altri» (Cesare Pavese), e invece «mi tolgono la solitudine senza farmi compagnia» (Friedrich Nietzsche).

Vorrei sentire di più la mia solitudine. Loro non me la fanno sentire. Sono lì lì per accorgermene e… tac! una chiamata, un sms, i balli di gruppo tamarri sulla spiaggia, un’altra chiamata, la rimpatriata, cascate di chiacchiere, vortici di giga. Inutili, che mi portano via il tempo: anche oggi è già tardi, mi son lasciato vivere. Così mi anestetizzano. Mi leccano la mia ferita, schifosi, me la fanno sentire di troppo, mi convincono che va tutto bene, che non c’è problema: relax! E che una compagnia vale l’altra, una parola vale l’altra, un film vale l’altro. “Che male c’è?” insinuano. E quello che sono (“ma di che sta mai parlando questo qui?”) mi muore dentro, sempre più nascosto, irriconoscibile. 

Come vorrei che qualche volta qualcosa capitasse, ma solo per me. Non essere un granello nella sabbia dei minuti, delle mailing list, degli ombrelloni, delle comitive. Essere necessario: «Ancora illuderti potessi / d’essere creatura necessaria / ad altra creatura, e quella a te! / Posare il capo su la spalla d’uno / che di te tutto sappia, anche le colpe, / e tutto ami, anche il male, anche i crudeli / segni del tempo; e tutta ti raccolga / nelle sue braccia!» (Ada Negri, Deserto). 

Sì, vorrei essere necessario. Non uno che capita, e che se c’è o non c’è fa lo stesso: ne chiami un altro, ne vedi un altro. Indispensabile, uno che se lo sposti l’universo barcolla. Proprio il contrario di quello che ci hanno insegnato, perfino gli allenatori alla Domenica sportiva: “nessuno è indispensabile”. No, da piccolo la promessa non era questa. Era alta, tremenda e personale: tutto per me («è per te ogni cosa che c’è»: o no?). Per me mio papà, per me la mia pistola ad acqua, per me le stelle. 

Pasolini fa venire i brividi, quando osserva che molti si portano addosso già prima di nascere, dentro la pancia della mamma, «il sentimento inconscio di essere “a carico” e “in più”»: e questo «non può che aumentare immensamente la loro ansia di normalità» (Lettere luterane). Se siamo capitati qui per caso, buttati qui – in un bel parco giochi, pieno di gonfiabili e di sms, ma pur sempre chiusi dentro –, non ci resta che sforzarci per rimanere a galla, per sguazzare nel nulla sempre più organizzato. 

Poi però mi ricordo di una delle prime cose dette da Benedetto XVI: «ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario» (24 aprile 2005). Forse l’estate mi è data per scoprirlo. Per accorgermi di quello che è per me, e buttare a mare quello che non lo è. E forse solo per questo vale la pena usare anche minuti, giga, canzoni, serate, parole. Magari capita di poter dire di qualcuno (o di sentirsi dire da qualcuno), come fece Beatrice con Dante, che questo è «amico mio, e non de la ventura».