“Per la Russia l’ora della prova, in cui la sua fede fu messa alla prova, l’ora del sacrificio per Cristo, giunse nel XX secolo, perché la Chiesa Universale doveva raggiungere la sua piena crescita spirituale e la perfezione anche grazie alla Russia“.
Queste parole dell’archimandrita Ioann Krest’jankin, appartenente al venerabile e antico monastero delle Grotte di Pskov, nel nord della Russia, mi paiono la migliore introduzione alla mostra dedicata ai Martiri della Chiesa ortodossa russa del XX secolo (“La luce splende nelle tenebre. La testimonianza della Chiesa ortodossa russa negli anni della persecuzione sovietica”), poiché ci fanno intuire la ragione di fondo che ha guidato il lungo, interessante e – per molti versi – sorprendente cammino compiuto per arrivare a presentare al pubblico del Meeting queste otto sale certamente non convenzionali e capaci di immergerci in un mondo spirituale ed ecclesiale assai differente da quello cui siamo normalmente abituati.
E le differenze balzano subito agli occhi fin dall’inizio del percorso alla scoperta dei martiri, vittime del potere bolscevico e sovietico – dal 1917 agli anni 80 –, che si apre con la vicenda della famiglia dello zar Nicola II, i cui membri sono venerati dalla Chiesa ortodossa come santi perché “nelle sofferenze che la famiglia imperiale sopportò in prigionia, con mitezza, pazienza e umiltà, e nel loro martirio finale… si manifestò la luce della fede in Cristo che vince il male, così come questa luce brillò nella vita e nella morte dei milioni di cristiani ortodossi che furono perseguitati per Cristo nel XX secolo” (così recita un pannello della mostra).
Certamente una simile apertura, che propone i Romanov quasi come modello esemplare dei moltissimi martiri causati dal comunismo sovietico, susciterà non poca sorpresa (e magari anche un pizzico di perplessità) in chi conosca la storia politica di questa dinastia e, più in generale, le vicende prossime e remote che portarono all’eliminazione dei suoi membri. E infatti non è una considerazione di tipo storico-politico – del tutto legittima, peraltro, e tuttavia non esaustiva ed esclusiva – a rendere ragione della scelta operata dagli autori della mostra, bensì una ragione eminentemente spirituale e legata a un “sentire” della Chiesa ortodossa russa davanti al quale siamo chiamati a sostare e a riflettere, anche se ci appare inusuale e forse poco in sintonia con il nostro consueto giudizio.
La sopportazione paziente delle sofferenze, anche quando esse sono motivate in primo luogo da vicende di carattere politico e non immediatamente causate dalla fede, costituisce infatti una forma di santità propria della Chiesa russa fin dai suoi albori (nasce nell’XI secolo, con l’uccisione dei santi principi Boris e Gleb, all’indomani del Battesimo di S. Vladimir e della cristianizzazione della Rus’ di Kiev) e rappresenta – insieme con le vicende sovente drammatiche del rapporto tra il potere politico e la Chiesa, e della concezione ad esse sottesa – uno degli aspetti di maggiore tipicità (e di differenza rispetto alla concezione occidentale e cattolica degli stessi temi), tra quelli che hanno accompagnato, con il loro sviluppo, il cammino della Fede in queste terre.
Il seguito della mostra introduce nelle vicende degli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, secondo due direzioni principali: da un lato abbiamo dei pannelli che descrivono in modo estremamente sintetico gli avvenimenti fondamentali che si susseguono nei decenni dal 1920 al 1960; dall’altro, vengono proposte ai visitatori le figure di alcuni martiri ritenuti particolarmente significativi e capaci di mostrare il permanere della fede e della testimonianza cristiana nonostante le molte prove e vicissitudini subite: dalle fucilazioni di massa alla spoliazione delle chiese e alla profanazione delle reliquie, alle divisioni indotte e favorite dal regime nella Chiesa ortodossa allo scopo di indebolirla e annichilirla, alle deportazioni e vessazioni patite dai cristiani, laici e membri del clero. Gli ultimi pannelli si soffermano invece sulla rinascita della Chiesa ortodossa dopo la fine del comunismo e, in particolare, sulla genesi dell’Università Ortodossa San Tichon, che ha promosso questa mostra insieme con la Fondazione Meeting.
Oltre a quanto già detto, nel dispiegarsi del percorso (arricchito anche da un’interessante mostra di oggetti appartenuti a martiri o detenuti nei gulag e nelle prigioni sovietiche) non mancano di proporsi al visitatore spunti decisamente “sfidanti” la nostra usuale concezione del martirio e della Chiesa: se infatti da un lato può stupirci il linguaggio sempre molto rispettoso (quasi aulico per la nostra sensibilità) con cui si parla dei martiri, o la scelta di presentare figure esemplari quasi totalmente appartenenti al clero (tra cui tuttavia, secondo l’uso delle Chiese orientali, vi sono molti sacerdoti sposati che hanno testimoniato la fede insieme ai loro familiari, generando sovente vicende commoventi per intensità e verità), dall’altro siamo posti di fronte a modalità di espressione della fede che ricordano l’acutezza disarmante dei Padri del Deserto dei primi secoli, e ci consegnano delle vere e proprie “perle” di sapienza e di radicalità nello sguardo sulla realtà. È ad esempio il caso di Afanasij Sacharov, vescovo per 33 anni (dei quali solo tre trascorsi in libertà e non nel lager o in esilio), che scrive: “Tutto ha un senso, un significato e uno scopo… non c’è uomo che almeno una volta nella vita non abbia servito qualcuno, e se ha servito è per questa opera buona che la vita gli fu data. E se qualcuno in tutta la vita non ha offerto nemmeno un solo bicchiere d’acqua, qualcuno l’avrà offerto a lui. Allora significa che il senso e l’utilità di quella vita è tutta nel fatto che un altro ha potuto fare del bene grazie a lui“. Come meglio affermare il valore intrinseco e irrinunciabile dell’altro?
Ecco, dunque, perché “la luce splende nelle tenebre”: perché nonostante le mille ferite, prove, durezze, resistenze, debolezze, vicende tristi e gloriose dei suoi fedeli e pastori, la Chiesa ortodossa russa ha potuto – per la Grazia di Cristo! – resistere a chi voleva distruggerla, e questo in uomini e donne che hanno riconosciuto l’adesione a Cristo come il punto irriducibile della propria identità e dignità.
Con questa mostra – ma, assai di più, con l’esperienza di disarmata apertura e di provocante profondità a cui ci invita – anche noi siamo chiamati a introdurci e a lasciarci accogliere in questa storia di martirio e di fede.
Innanzitutto perché non abbiamo dimenticato le parole dette da Giovanni Paolo II il 7 maggio 2000, mentre commemorava insieme a cristiani di tutte le confessioni i martiri del XX secolo. Egli affermava: “l’eredità preziosa che questi testimoni coraggiosi ci hanno tramandato è un patrimonio comune di tutte le Chiese e di tutte le Comunità ecclesiali. È un’eredità che parla con una voce più alta dei fattori di divisione. L’ecumenismo dei martiri e dei testimoni della fede è il più convincente; esso indica la via dell’unità ai cristiani del ventunesimo secolo“.
In secondo luogo, perché il desiderio che ha animato gli organizzatori di questa mostra si identifica innanzitutto con la necessità di rispondere a una urgenza da loro avvertita con forza, ovvero quella di condividere con i Cristiani d’occidente – iniziando dai visitatori del Meeting – il dono e la provocazione di quei “nuovi Martiri” che essi sentono profondamente loro e dal cui sacrificio si sentono generati nella possibilità di credere oggi.
E che questi martiri siano per noi un dono tanto inatteso quanto reale e arricchente, lo testimoniano i giovani e le giovani che vi condurranno nella visita: loro per primi – nei lunghi mesi della preparazione, che hanno visto anche un soggiorno a Mosca e il nascere di amicizia e collaborazione fraterna con studenti russi e ucraini – hanno già sperimentato un cambiamento nel loro modo di pensare e vedere la fede come testimonianza a Cristo, la preghiera e la liturgia come immersione nella Gloria di Dio, la sequela come rispetto e riverenza per chi ci indica con la sua vita il cammino da percorrere.
Non possiamo non ricordare la passione che don Giussani aveva per la Russia: una passione che non solo ha favorito e generato innumerevoli vicende di sequela personale e di opere altrimenti impensabili (come ad esempio il legame con l’Università San Tichon che ha reso possibile questa mostra, che nasce però da una lunga storia che si intreccia con la Biblioteca dello Spirito, con la presenza del Movimento in Russia, con il sorgere di amicizie e di esperienze comuni nell’ambito educativo e scolastico…), ma ha anche segnato un costante arricchimento e allargamento dello sguardo di fede in noi che seguiamo il suo carisma. Anche questa mostra è un tassello di questo mosaico. Da visitare e da ascoltare, lasciandosi trasportare in un mondo insieme così lontano e così vicino al nostro.