Sauro Albisani (1956), nato a Ronta del Mugello (Firenze), è poeta e drammaturgo tra i più stimati della sua generazione nel prolifico contesto fiorentino e senza dubbio in quello nazionale. La sua poetica dell’imprevisto, riproposta con risultati convincenti nelle recenti pagine del suo ultimo libro di poesia, intitolato «La valle delle visioni» (Passigli, 2012), è sempre più un sorprendente dato di riconoscibilità, un indizio di voce autonoma. Allievo e collaboratore di grandi personalità del Novecento quali Carlo Betocchi e Orazio Costa, Albisani sta meticolosamente ricostruendo una sua personale e poematica storiografia del quotidiano, riprendendo da Betocchi la quieta interrogazione del reale minimo e della propria coscienza; da Costa la perenne tentazione del teatro in forma di dialogo o monologo, cercando la performatività della parola.



Non siamo però di fronte a un mero epigono, poeta solo perché semplice ripetitore di un genius loci (quello fiorentino dell’ermetismo e oltre) che non può non avere potente e vacua eco. No, Albisani non continua nessuna corrente, né va alla ricerca di un riconoscimento o aureola: al contrario, tenta la strada della poesia per indagare l’universale senso di goffa disappartenenza dell’uomo contemporaneo e, allo stesso tempo, l’incomprensibile slancio del desiderio di conoscenza e d’amore. La sua poetica è, come si è detto, quella dell’imprevisto, o del troppo previsto. L’ironia sagace, salata e salace di certi suoi versi rivela una malinconia autentica, quella di chi, spossato dalla tortura dell’abitudine, non percepisce – non vede – più il significato: «Siamo dentro un castello./ Il castello non si vede, ma/ siamo dentro un castello./ Il perché è semplice./ Se questo non è un assedio/ dimmi tu come devo chiamarlo».



La vita è un assedio e il poeta, disilluso, non ha nomi da dare al reale che confortino, che acquietino l’attesa. Dunque la pigrizia, le difficoltà nell’educazione dei figli, il passato mal digerito, l’adeguarsi a una «posizione in bilico/perché diversamente non riesco a sedermi». Un “io” lasciato nel dormiveglia, nello stordimento dettato dalla stanchezza o dalla troppa luce, eppure sempre presente, narrativo, esplosivo, sebbene bersagliato da omissis, troncamenti, simbologie ironiche. Il dettato, lo stile è piano, semplice: sono semmai complicati i sottotesti che fanno ribollire, sulla superficie del termine, una tensione quasi sismica, che irrompe direttamente dal ritmo maturo e intrigante e dalla riuscita coloritura surreale della scena poetica.



Troviamo echi caproniani (nell’ironica spietatezza del pensiero) e la medesima buzzatiana ansia pregna di mistero, ma mistero ridimensionato ironicamente, contestualizzato perché non sia astratto. «Sempre con la stessa inquietudine/ sempre su questo scalino che guarda la valle/ dove la pietra serena sente prima/ il tocco diafano del sole di gennaio»: un’inquietudine che scalza il cinismo e con gesto perentorio pone la questione: «Potessi sentire come cosa buona/ che esista/ tutto ciò che esiste».

La domanda è la dimensione più cruda e realistica di un libro che, nella maggior parte dei casi, esprime il dramma di non esser riusciti ad «accasarsi» dentro un pianeta, un mondo che è una «valle delle visioni» dataci «in cambio della tua lontananza», ovvero la lontananza di divinità non nominate, ma riconosciute come «esseri superiori»: «ci osservano/ e potrebbero annichilirci in un attimo,/ chiudere la partita/ senza dircelo,/ ma non lo fanno». Una pietà divina e incomprensibile che si fa spazio e riposa dentro l’inquietudine del poeta, che si riconosce pino «che davanti casa/ vecchio non so di quanti secoli ode/ premere dentro sé l’eternità».

L’esistenza, con la sua ironica condanna quotidiana a non farsi capire dal poeta, è tuttavia pregna di mistero e, se non c’è fede nella parola, basta l’ombra vista di sfuggita di quella fede a lasciar aperta la porta della speranza: «Ma se c’è un assedio/ dev’esserci un castello./ Anche se non si vede./ E se vogliono espugnarlo/ (non chiedermi chi)/ avrà pure un valore, no?».