Un conflitto tra coscienza e Stato che pervade tutta – o quasi – la storia dell’umanità. Una dialettica incessante tra l’impero, che pretende di esaurire tutto il significato dell’opera umana, e la Bibbia, come la sede dei valori che garantiscono il primato di Dio e con esso la “sconfitta” della pretesa totalizzante dell’impero.
Parlando con Giorgio Buccellati, insigne archeologo, docente nell’Università della California (Los Angeles) le barriere temporali cadono e si scopre che l’impero assiro sarebbe andato volentieri a braccetto con i folli esperimenti totalitari del secolo scorso, ma anche con una certa politica estera americana, con la burocrazia europea o – semplicemente – con un sistema di imposizione fiscale che opprime i cittadini.
Professor Buccellati, secondo lei non siamo poi così distanti da un’idea di potere che si è realizzata già tremila anni fa.
Infatti, è così. Nel mio ultimo lavoro dedicato alle origini della politica sviluppo proprio questa tematica. C’è una continuità nelle istituzioni che aiuta a capire in modo sorprendente il nostro mondo di oggi.
Ci aiuti a capire, professore.
Il rapporto che sussiste tra noi come individui e il potere centrale dello Stato è qualcosa che si è affermato nel momento in cui la relazione tra gli esseri umani è divenuta molto più complessa rispetto a quanto si è verificato in precedenza per migliaia di anni. Il punto discriminante è stato la comparsa del linguaggio. Fino a circa 10mila anni fa gli uomini si radunavano in gruppi soltanto sulla base di una conoscenza personale. Numericamente erano pochissimi. Ciò non tanto per motivazioni esterne (l’alimentazione per esempio) ma perché non avevano la capacità conoscitiva di rapportarsi gli uni agli altri al di fuori di una relazione personale diretta. Quando, con il linguaggio e poi con la scrittura, la relazione diviene funzionale, si sviluppa il rapporto personale e il potere centrale si separano e quest’ultimo dà una direzionalità al gruppo umano. È esattamente quello che noi abbiamo ancora oggi.
Lei dice che nel mito babilonese prima viene creata la città e poi l’uomo. È una tesi che intacca il primato della personalità originale di ognuno di noi.
La Mesopotamia è l’esatto momento storico in cui si istituzionalizza la centralità del grande gruppo demografico. Questo viene espresso – in forma mitica o ideologica che dir si voglia – proprio nel modo che lei ha ricordato. Il fatto che prima venga creata la città e poi solo secondariamente gli esseri umani che la abitano, vuol dire che l’uomo risulta una casella funzionale all’interno della struttura sociale che è la città. Altrettanto significativo è il fatto, come lei ha detto spontaneamente, che questa visione risulti angusta, quasi contraria alla nostra sensibilità.
Come si spiega questo fatto?
Abbiamo, volenti o no, assorbito una sfondo biblico che rispetto a quello mesopotamico risulta radicalmente alternativo. Esso determina una visione della realtà in netto contrasto con la prima.
Perché la differenza tra i due modelli sarebbe così radicale?
Perché ciò che conta nel mondo mesopotamico è il sistema e la sua organizzazione in modelli ripetitivi. Per esempio nella cultura mesopotamica non c’è rapporto personale dell’uomo con la divinità: essa si esprime solo attraverso fenomeni ripetitivi come i corpi celesti. È una relazione di tipo sistemico, meccanico.
Una concezione che ha di conseguenza una corrispondenza a livello sociale e politico.
Appunto. Essa determina una visione totalitaria dello stato all’interno del quale l’uomo è individuo, non persona. Non è un caso che la schiavitù − che è la funzionalizzazione estrema del soggetto − inizi proprio con la civiltà.
Quale modello ha vinto? Quello biblico o quello mesopotamico?
È la domanda che sta al centro di tutto… Il problema è estremamente complesso perché non si può fare a meno dello stato: ciò che lo stato garantisce è l’efficienza − ma anche la società lo fa in quanto complessità sistemica. Se non ci fosse questo meccanismo noi due non saremmo qui a parlarci tra di noi, non ci sarebbe l’Italia, nemmeno ci sarebbe un Meeting. Pensi che nel periodo preistorico un territorio vasto come quello dell’attuale Europa era abitato da circa 6-7mila persone. Per centinaia di migliaia di anni! Se non ci fosse stato la città e dunque la funzionalizzazione non ci sarebbe stata la massa demografica di base atta a costituire il mondo come è giunto fino a noi.
C’è dunque bisogno dello stato e della sua efficienza, il problema è che lo stato tende a prevaricare.
Ed è quindi altrettanto importante che ci sia una “controparte” che riconosce il valore assoluto della persona umana. Questa controparte è venuta di fatto dal mondo biblico. Non voglio però essere io a parlarne perché non è il mio campo. Qui importa sottolineare che la forza preponderante del sistema mesopotamico − che in sostanza è quello dell’intero mondo civile − si è sempre orientato in questa direzione: esplorare tutte le possibilità sistemiche della convivenza anche se sono a scapito dell’individuo.
Quindi il fattore che lei nella sua relazione chiama “impero” ha in sé un principio dinamico che lo porta ad ampliare se stesso.
Sì. All’interno dello stato è solo lo stato che ha il potere di decidere tutto: è il concetto di sovranità. Ma se c’è un altro stato sorge una limitazione, cioè le due sovranità si contrappongono. L’impero risolve questa possibilità compiendo la dinamica propria dello stato, perché è intrinseco alla struttura stessa dello stato che diventi totale. Si noti che ciò è potuto però accadere solo nel mondo civile.
In altri termini?
L’impero non è mai riuscito a incorporare sistemi che non siano già statali. Lo stato è un sistema che può essere integrato sistemicamente in un altro stato, ma gli elementi che non hanno una loro struttura statale e quindi una configurazione simile sono esterni alla penetrazione e all’assorbimento ed è una illusione quella di cercare di farlo.
Sembra di passare con un balzo dalla Mesopotamia al mondo odierno.
Certamente. È la lezione, per esempio, del terrorismo di oggi. Dove le strutture statali non esisitono l’impero deve fermarsi: esse non a caso vengono considerate come qualcosa che illusoriamente non esiste. L’impero assiro si è esteso fin dove esistevano altri stati, ignorando le tribù che stavano al di fuori di esso. Saranno proprio queste a causarne la fine.
Lei ha fatto l’esempio del terrorismo. Siamo in presenza di un fenomeno analogo?
Devo premettere che queste sono considerazioni che esulano dalla mia disciplina. Ma a me sembra di poter dire che oggi che siamo in presenza di qualcosa di molto simile. Fenomeni come il terrorismo, i cosiddetti “stati-canaglia” o il terzo mondo − cose per una altro verso diversissime tra loro − stanno a significare che siamo impotenti a integrare le loro forme. Li combattiamo o ci relazioniamo ad essi in modi che sono politicamente o culturalmente asimmetrici e inadeguati. Cosa vuol dire infatti “capire” il terzo mondo? Temo che significhi per lo più una cosa: interpretarlo con i nostri schemi e perciò distruggerlo.
Invece?
Invece occorrerebbe avere più coraggio dei propri principi: se sono validi, se la civiltà è valida, essa si farà apprezzare e sarà capace di accettare differenze strutturali che possono contribuire al suo stesso allargamento. L’alternativa invece è quella di esportare un modello unico e imporlo. Credo che uno dei motivi per cui il mondo islamico sta diventando sempre più radicalizzato è il fatto che vede un’enfasi sull’efficienza e sul diritto di proprietà concepiti in modo religioso, totalizzante.
In cosa consiste allora l'”emergenza uomo”?
Nell’accettare l’aspetto sistemico della società come il solo ed esclusivo: l’uomo sta naufragando perché si disconoscono i valori fondamentali della sua umanità. L’umano tanto più si arricchisce quanto più si immedesima con nuove potenzialità che allargano, invece di soffocare, la sfera del personale.
(Federico Ferraù)