Viene presentato oggi, martedì 20 agosto 2013 alle ore 15.00 (Eni Caffè Letterario), al Meeting di Rimini il libro di S. Ecc. Mons. Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace (Ed. San Paolo), “Padre Pino Puglisi Beato. Profeta e martire”, ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993 e beatificato il 25 maggio 2013. Sarà presente l’autore, mentre S. Ecc. Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale, che conobbe personalmente il beato Puglisi e con lui collaborò per alcuni anni, ne curerà la presentazione. Gli abbiamo chiesto di anticiparci alcuni temi del suo intervento.



Mons. Pennisi, in occasione della beatificazione di don Pino Puglisi sono stati editi o riediti parecchi testi. Perché un altro?

Questo libro non si limita a raccontare la storia di don Pino, ma è arricchito da profonde venature spirituali. Tratteggia infatti la figura di un prete divenuto martire per le parole di Vangelo che pronunciava, per la fede che sottraeva spazi alla criminalità, per le sue opere che sapevano reinventare la speranza. E, come dice bene nella prefazione il cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, “è un nuovo tassello letterario, con profonde riflessioni bibliche, teologiche e morali”.



Qual è la sua particolarità?

Mons. Vincenzo Bertolone, zelante e appassionato postulatore della tappa finale della Causa di beatificazione, ricostruisce con amore e impegno il pensiero, le opere il ministero e il cammino di santità di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio, con lo scopo di esplorare “l’identità sacerdotale e l’eroico esercizio delle virtù” di Puglisi, per “indicarle al mondo, con la sincera speranza di elevarle, di dimostrarle, di renderle fruibili nell’uso quotidiano”. Dopo una disamina del martirio e della sua tremenda attualità nell’eterna lotta tra il bene e il male, l’autore apre una finestra sull’evoluzione storica del rapporto Chiesa-mafia per individuare le prospettive future.



Quale immagine esce del rapporto, spesso controverso e molto chiacchierato, tra chiesa siciliana e mafia?

La Chiesa siciliana, di fronte alla mafia, ha trovato difficoltà ad elaborare una risposta che superasse il livello dell’etica civile, del comune rimando alla giustizia e alla condanna della violenza che stanno alla base di una società ordinata. È ovvio che questo piano è assolutamente necessario, ma dovrebbe essere altresì ovvio per il cristiano che esso resta insufficiente, perché non lascia emergere ancora l’originalità del messaggio evangelico.

Che cosa è cambiato in positivo più di recente?

Negli ultimi due decenni, in seguito anche al grave e ripetuto manifestarsi dell’esclusiva natura criminale e dell’estrema pericolosità sociale della mafia e, conseguentemente, al crescere di una diffusa coscienza collettiva di rifiuto di forme di tolleranza e di pur tacita e passiva connivenza col fenomeno, è maturata nella Chiesa siciliana una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana: il mafioso, in forza della stessa appartenenza alla cosca dedita strutturalmente al crimine, si pone oggettivamente fuori della comunione ecclesiale. L’atteggiamento pastorale verso i mafiosi va accompagnato dalla esigenza di prevenire i fenomeni criminosi ed aiutare i mafiosi a pentirsi, a riparare il male fatto e a diventare persone nuove.

 

Come si colloca in questa storia il sacrificio di don Pino Puglisi?

 Per la maturazione di questa mentalità sono stati importanti gli esempi di tanti cristiani preti e laici impegnati a prevenire e contrastare il fenomeno mafioso e i pronunciamenti episcopali e dello stesso papa Giovanni Paolo II, che ha contribuito alla interpretazione e alla condanna della mafia a partire dalle tradizionali e originali categorie cristiane. Il riferimento principale della predicazione è ridiventato il vangelo. L’omicidio Puglisi è parte fondamentale di questa storia.

 

Qual è il suo specifico contributo?

L’omicidio di Puglisi fa comprendere quanto sia importante una pastorale che esca dagli stereotipi dell’antimafiosità, e si ponga a servizio di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Sono stati necessari, infatti, molti anni per comprendere che Puglisi non era un prete antimafia perché non aveva la scorta o non partecipava ad attività pubbliche, molto in voga in quegli anni. Puglisi era un normalissimo parroco che proseguiva nella sua azione pastorale anche contro gli avvertimenti e le minacce dei mafiosi che ebbe prima della sua uccisione. Al Cardinale Pappalardo tutto ciò fu molto chiaro fin da subito. Nell’omelia per i trigesimo di don Pino affermò: “E’ stato ucciso non solo dalla mano assassina che lo ha colpito, ma anche da quelli che hanno deciso di disfarsi di lui per l’opera di evangelizzazione che compiva, e che aveva la sua necessaria proiezione sul piano della elevazione spirituale, morale, sociale”.

 

Ma allora che differenza c’è tra l’omicidio Puglisi e per esempio quello di Falcone o Borsellino?

Don Puglisi non è stato ucciso per un nobile ideale, come tanti che sono morti in questi anni e ai quali va la nostra riconoscenza. I martiri della mafia che qualcuno ha definito “martiri per la giustizia” sono eroi umani che hanno sacrificato la loro vita per combattere questo fenomeno criminale. Don Pino non aveva un ideale da difendere e neppure dei buoni valori da professare. La mafia lo ha ucciso perché la sua logica è incompatibile con quella del vangelo. E’ morto per Cristo e con Cristo adesso partecipa della gloria di Dio. La strada che il Signore ha stabilito per lui è passata attraverso le tappe della sua vita, che tutti adesso conosciamo, ultima della quale la sua uccisione per mani mafiose.

 

Si è detto e ripetuto che Puglisi è stato beatificato in odium fidei. Che significa?

Mons. Bertolone chiarisce nel suo libro, che proprio per questo invito a leggere, tutti gli aspetti che hanno convinto la Congregazione per le Cause dei santi a riconoscere il martirio in odium fidei, ossia in odio alla fede. Emerge la figura di un prete che fa il suo lavoro amministrando i sacramenti, che si impegna in tutte le opere di misericordia, che certo, predica anche contro Cosa Nostra; ma questo suo impegno contro il male non è la nota prevalente del suo ministero sacerdotale. È dunque contro un sacerdote autentico, contro questo prete “senza aggettivi” che esplode l’avversione dei mafiosi. Lo si deduce dalla struttura mentale e materiale della mafia: i mafiosi, con il loro rito di affiliazione, scelgono di appartenere a un padrino, non al Padre celeste. L’attività sacerdotale di don Pino provoca, dunque, un odio criminale, un odium fidei.

 

Ma questa può essere una interpretazione buona al massimo per la Chiesa. Come si fa a dimostrarne la validità anche rispetto a tutta la società?

L’odio per la fede di don Puglisi è scritta con chiarezza nel verbale degli interrogatori dei suoi uccisori e di tutto ciò il libro offre compiuta giustificazione. Da essi emerge la pericolosità dell’azione di Puglisi, non per il bene che faceva, ma per la minaccia che rappresentava al potere della mafia. La mafia, con l’assassinio di don Puglisi, ha voluto colpire la Chiesa con un segnale forte, manifestando in questo modo l’ateismo pratico che la contraddistingue, non ostante certe parvenze di religiosità mistificatorie. Ma non è una dimostrazione solo burocratica.

 

Cioè?

 Cito, a memoria, la testimonianza resa in una manifestazione svoltasi al Palazzo di Giustizia di Palermo qualche giorno prima la beatificazione di don Pino da parte della dottoressa Mirella Agliasto, che in qualità di giudice a latere nel processo che condannò gli uccisori e i mandanti di Puglisi, scrisse le motivazioni della sentenza. Nel ripercorrere le tappe di quei difficili anni ha detto che la ricostruzione del delitto negli atti processuali non è mai stata contestata e che da essi emerge con chiarezza che l’odio per Puglisi nasceva dal suo essere prete e dal fare il prete in quel modo. Risulta anche che i mafiosi tentarono di avvicinarlo con lusinghe economiche. Gli offrirono parecchi milioni per la festa patronale. Ma quando rispose che era meglio destinare quella somma ai bisogni del quartiere non si fecero più vedere.

 

Quale giudizio si può dunque trarre?

 Già dalla lettura della sentenza, appare chiaro che a Brancaccio si consumò uno scontro tra poteri. Un muro contro muro che non era identificabile nel confronto tra le buone opere di don Puglisi e il falso solidarismo dei mafiosi. Si manifestò un odio alla persona del sacerdote che derivava non dalla sua bravura personale, ma dalla sua appartenenza a Cristo.

 

La ringraziamo.

 Mi permetta di concludere con una citazione di mons. Bertolone, che spero contribuisca ad accrescere la curiosità per leggere il suo libro: “Puglisi ha operato appassionatamente, edificando, come servitore e tessitore, attimo per attimo, il bene della comunità cristiana, che è anche bene comune, all’interno del quale si danno, dunque, alcuni valori e beni non soggetti alle leggi del mercato, del venire a patti, della trattativa o della collusione con qualunque altro potere che non sia quello divino. La testimonianza di Puglisi è una chiara indicazione circa le prospettive future di un atteggiamento netto da tenere, in nome della connessione tra culto eucaristico e beni non negoziabili, nei confronti di qualunque modo illegale e anticristiano di vivere, a volte endemico in alcuni territori, perché non è tanto la Chiesa di Puglisi che è antimafia, ma è la mafia che è antievangelica”.

 

(Francesco Inguanti)

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