Nonostante la corporatura massiccia e due grandi braccia forzute, Giovanni Testori non salì mai sul ring. Amava il pugilato, nella Milano scalpitante del primo dopoguerra e quindi lo si ritrovava spesso a bordo ring, nelle palestre dall’aria irrespirabile e resa opaca dal fumo di centinaia di sigarette. La Palestra Principe, di viale Bligny. Oppure l’altra, in via Bellezza, che poi sarebbe stata scelta da Visconti per ambientarvi scene del suo Rocco e i suoi Fratelli. Rocco, nel film interpretato da Alain Delon, era un personaggio che Testori (il film venne infatti ricavato dai suoi racconti) aveva immaginato proprio in quelle sue assidue frequentazioni sotto ring: forte e puro, troppo puro per non finire vittima. Poi finì quella stagione stupenda e vitale. Milano iniziò poco alla volta a intristirsi, poiché anima borghese che metteva nell’angolo quella popolare.
Testori si sentiva ferito, come spodestato da un grande amore che la storia stava per cancellare. Per questo ad un certo punto si decise lui a salire sul ring. Non ovviamente quello delle 12 corde, dato che ormai era un uomo di mezz’età: salì su un altro ring, quello della pittura. Lui pittore lo era stato sin dalla giovanissima età. Poi nel 1949, a causa di un importante lavoro rifiutato, aveva deciso di smettere dando fuoco a tutte le tele che ancora aveva nello studio. Ma in quel 1969 il desiderio di riprendere tela e pennelli si riaffacciò imperioso. Fu un riinizio spavaldo, senza nessuna ruggine né timidezza. Tele grandi, disegno semplice, enormi quantità di colori, e la spatola sempre pronta ad affondare, potente come una cazzuola. A popolare queste tele, ora approdate al Meeting in occasione del ventennale dell scrittore, Testori riconvocò quel popolo delle 12 corde che s’era smarrito in una Milano ormai incupita.
Per dipingere dei pugili non ci si possono concedere troppi leziosismi. E Testori intraprese così una lotta per mettere sulle tele qualcosa che fosse il più consustanziale possibile alle masse di muscoli, all’energia di quei corpi piantati come querce sul tappeto del ring. Dalla sua immaginazione vennero fuori grandi figure che spaccavano la bidimensinalità della pittura: sono quadri e insieme bassorilievi, “plasticati” con enormi quantità di colori, e addomesticati ovviamente non con il pennello ma con una spatola. È pittura “scolpita”, affascinante nel suo esagerato bisogno di affermarsi come realtà fisica e non solo rappresentata.
Ma c’è qualcos’altro di anomalo in queste grandi tele: i pugili sono tutti in azione, mettono in mostra il meglio del loro repertorio, ma non combattono più contro nessuno, non hanno avversari contro cui scatenare “la tempesta di pugni” come i protagonisti di Rocco o del Ponte della Ghisolfa.
E anche l’aria attorno a loro è molto diversa da quella impregnata di fumo e di urla delle palestre milanesi. Lo sfondo infatti diventa via via sempre più decisamente bianco, di un biancore che fa risaltare come gemme il rosso che guarnisce i guantoni o i pantaloncini; un bianco che monumentalizza quei corpi, e ne fa così delle icone, immagini di una gloria che Testori vuole pietrificare nella pittura prima che la storia le spazzi via.
Non a caso l’ultima tela del ciclo oltre ad essere la più monumentale (è tra quelle presenti al Meeting) è anche quella storicamente più connotata: Testori infatti si ispirò alla foto del celebre KO che l’8 maggio 1971 mise fine alla carriera di Nino Benvenuti, nel secondo combattimento con Carlos Monzon. Un’immagine di sconfitta, con una posa che ha una bellezza drammatica da farla assomigliare a una sorta di “pietà”. La sconfitta di Benvenuti, uno dei più grandi pugili della storia, come giustamente sottolinea Davide Dall’Ombra nel testo del volume che racconta la storia di questo ciclo, può essere considerata un capolinea. Capolinea di un’Italia che si lasciava definitivamente alle spalle la baldanza del boom, e metteva nel cassetto quel sogno stupendo di cavalcare il progresso restando però sempre se stessa.