Perché l’uomo di oggi ritiene importante sapere che la terra gira intorno al sole e svaluta, o addirittura, censura le domande fondamentali sull’esistenza? Questa è la domanda di partenza del libro di Olivier Rey, Itinerario dello smarrimento, edito da Ares, presentato nel corso del Meeting di Rimini. Matematico e filosofo del Cnrs francese, l’autore affronta con lucidità penetrante il cammino della scienza, a partire da Galileo Galilei, fino alle neuroscienze. «Le conoscenze fornite dalla scienza, che all’inizio illuminavano il mondo, accumulandosi, hanno finito con l’oscurarlo, col metterlo a distanza, incarcerandolo in dispositivi teorici e pratici attraverso i quali si fatica a percepirlo».  



Non essendo noi a decidere il contesto nel quale vivere, ci troviamo in un contesto generale che qualifica come più importanti domande che sono in realtà subalterne e non vuol saper niente di quel che è fondamentale. E così sopportiamo un mondo insensato, perché non possiamo fare altrimenti. Purtroppo, «siamo così abituati a questa miseria che il più delle volte non la sentiamo neanche più». Al tempo stesso, non sopportiamo questo mondo, lo sopportiamo sempre meno e, se meraviglia può esserci, è anzitutto questa: come possiamo vivere senza preoccuparci di quella che dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione, ossia il senso di un’esistenza umana?



Un primato così esorbitante della scienza nella psiche occidentale proviene, in gran parte, dal potere senza precedenti che la tecnologia, che ne è scaturita, accorda alle cose. In parte, anche, dal vuoto spirituale senza precedenti al quale questo potere si accompagna, e di cui è l’unico palliativo. In modo tale che, se risulta impossibile dare alla scienza un senso per la vita, è anche impossibile rinunciarvi. Il problema è che il mondo, così come la scienza lo considera, è per principio sprovvisto di senso. Infatti, l’emergere di un senso suppone un’affinità tra la coscienza e quel che si guarda. Il senso può dunque nascere se quel che si guarda dice qualcosa. A un rapporto unilaterale si sostituisce allora una reciprocità, la risonanza di una corrispondenza.



Con la complicità di diversi filosofi (Bacone, Cartesio, Newton) ogni domanda si è trasformata in problema da risolvere dalla scienza e dalla tecnica cosicché l’uomo, impotente e rassegnato, è ripiegato su domande sempre più limitate, che sono alla sua portata.

Impegnandosi nella scienza, la cultura occidentale si è dedicata a una colossale impresa filosofica, che, occorre dirlo, ha prodotto risultati stupefacenti. Ma in cosa la caduta dei corpi risponde al male di vivere, a una vita che cerca il suo significato? Le conseguenze di questa scelta sono enormi. Leibniz, alla ricerca di una lingua matematica, profetizzava che «quando sorgeranno delle controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente …: calcoliamo». 

Le conseguenze di questa scelta sono enormi. Leibniz, alla ricerca di una lingua matematica, profetizzava che «quando sorgeranno delle controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente …: calcoliamo». La scienza, che inizialmente era una praxis, ha alzato il tiro, pretendendo di attutire il più possibile il dramma della vita, o come dice Olivier Rey in un bellissimo capitolo del libro, dedicato all’amore-passione, il «tormento dell’individualità». Si tratta di una mutazione metafisica e antropologica di notevole livello: appianare la complessità del reale e dell’uomo, al punto tale che «la ricerca moderna non è apertura al reale, ma sforzo per impedirgli di entrare. Sforzo per integrare la realtà in un sistema simbolico, per sottometterlo al calcolo». È talmente evidente ciò che la scienza non prende i suoi oggetti a caso, così come vengono. Essa sceglie ed elabora quelli che hanno presa ai suoi metodi. Se tali oggetti non esistono, essa li costruisce. Così non è la scienza che deve giustificarsi come metodo di approccio dei fenomeni – ecco la mutazione metafisica − ma sono i fenomeni che devono giustificarsi in rapporto alla scienza, divenuta il criterio dell’essere. Quel che può essere esca per la scienza è reale e quel che non è esca per la scienza è irreale. Il mistero, nella misura in cui è ammesso, è sempre subalterno e periferico.

Mediante questa mutazione, l’uomo, anziché vedere i suoi legami con le cose approfondirsi, erra in un mondo opaco e estraneo di scatole nere. Sempre più numerose, vista la frammentazione delle scienze. E il loro contraddirsi.

Si trasformano le domande in problemi da risolvere. Ci si dice «bene, che fare?». Ma, in certi casi, occorrerebbe proprio liberarsi dalla domanda «che fare?», occorrerebbe fermarsi, lasciare il vuoto scavato in noi dal dispositivo, svuotarsi delle immondizie di cui lo stesso dispositivo lo riempie. Non solo le immondizie evidenti, ma anche la carrellata di informazioni falsamente interessanti rovesciate nella nostra testa, che accecano e snervano il pensiero. Ripudiare l’insignificante, per far posto al vero. Ritrovare l’esperienza del mistero, cioè del reale così come si presenta, da cui le domande sgorgano.

Olivier Rey ci mostra una potente ragione della barbarie in cui viviamo, normalmente attribuita ad altre cause: l’uomo decade nella misura in cui viene meno alla sua vocazione, che è accoglienza del mistero essenziale di ogni cosa e di se stesso. L’autentico progresso (quel progresso di cui la scienza ha fatto la sua bandiera) è avanzata nel mistero.

Olivier Rey, “Itinerario dello smarrimento. E se la scienza fosse una grande impresa metafisica?”, traduzione di F. Crescini, Ares, Milano, 2013