Lo scorso 11 luglio è morto Alessandro Spina, uno dei più segreti e solitari romanzieri delle nostre lettere. Da anni viveva in un isolamento quasi claustrale nella sua splendida villa secentesca in Franciacorta. Circondato dagli scaffali delle sue librerie (rigorosamente ordinate per nazioni, vicino alla sua stanza di lavoro i prediletti autori tedeschi e francesi), dalle lettere dei tanti corrispondenti, dai brogliacci tormentanti dei suoi appunti e del suo zibaldone, di cui si abbiamo avuto qualche anno fa un’importante anticipazione (Diario di lavoro, 2010) grazie alla casa editrice Morcelliana.
In questi tempi di scritture omologate e senza orizzonti (sembra quasi che il ritmo delle grandi narrazioni sia affidato in esclusiva alle serie tv americane…), molti aspiranti scrittori potrebbero abbeverarsi al magistero di Spina. La sua ricerca spazia su queste coordinate: da una parte, uno stile raffinatissimo ed elegante che guarda con incanto ai maestri d’oltralpe (Hofmannsthal, Musil e Proust), dall’altra, lo studio della complessità umana (talvolta labirintica) che in lui trovava un prediletto campo di ricognizione in un personaggio molto particolare: l’ufficiale italiano in colonia. Il “teatro naturale” su cui oscillano le creature di Spina è l’Africa, la Libia, dove tutte le passioni si estremizzano e si ampliano di fronte alla cassa di risonanza del mare e del deserto. Per Spina, la vita stessa è un grande atto teatrale: di volta in volta inquadra con l’occhio di bue della sua immaginazione donne bellissime e sospese, soldati in attesa di una guerra che non arriva mai (come nella profonda meditazione di Buzzati), beduini sapienti che conoscono i segreti della vita e delle stelle.
L’intera vita di Spina si è svolta sotto la cometa del segreto (Spina stesso è un nom de plume, quello vero era Basili Khouzam). Nato a Bengasi nel 1927 da una famiglia arabo-maronita che aveva abbandonato Aleppo ai primi del Novecento per installarsi in Libia, ebbe la possibilità di studiare in Italia e in Europa, grazie alla fortuna dell’industria tessile del padre. Dopo l’educazione milanese, divenne un diligentissimo “capitano d’industria” in Cirenaica celando rigorosamente la sua passione per la scrittura. Approfondiva la sua vocazione di scriptor nel cuore della notte, lontano da quegli sguardi indiscreti che forse mal avrebbero compreso un industriale con il cuore di poeta che sapeva accendersi per Kafka, Broch, Joseph Roth, Trakl e Benn.
Due tappe essenziali concorsero alla sua ricerca letteraria. Nel 1969 la rivoluzione di Gheddafi nazionalizzò l’industria di Spina che si vide costretto al rientro in Italia, che coincise con la decisione di dedicarsi alla scrittura full time. Ma prima, nel 1955, data ben più significativa, vi fu la pubblicazione del suo primo racconto coloniale sulle pagine di Nuovi Argomenti. Un “battesimo d’autore” seguito con grande trasporto con “padrini” del calibro di Alberto Moravia e Alberto Carocci.
Quel racconto ebbe larga fortuna per gli addetti ai lavori. Con gli anni si sarebbero aggiunti i pareri entusiasti di Anna Banti e Roberto Longhi che lo avrebbero pubblicato su Paragone propiziandogli l’ingresso nella grande editoria. Tempo e corruzione uscì per Garzanti nel 1962, cui seguirono le Storie di ufficiali pubblicate nel 1967 da Mondadori. Splendida, in proposito, la recensione firmata da Luigi Baldacci per Epoca (27/8/1967), che seppe intuire l’ispirazione più profonda di Spina: “Storie di ufficiali è un raro esempio di equilibrio narrativo. È una di quelle opere assolutamente leggibili, che tuttavia non mostrano la corda della routine o della consunzione. È un libro ricco di personaggi, che compongono, alla fine, un racconto unico, una storia sola; ma questi personaggi, più che essere rappresentati direttamente, sono colti nel labile segreto della loro ambiguità… In queste storie si allude a Stendhal e a Madame de La Fayette, come se Spina volesse dirci che gli strumenti narrativi dei nostri tempi sono di per sé insufficienti a restituire tutta la realtà o una certa realtà: e che tuttavia quella realtà esiste e che quando la si vuole evocare è indispensabile ricorrere alla mediazione – come si dice in metapsichica – di certi spiriti guida… Il fulcro, il nucleo narrativo, più che identificarsi in un personaggio, s’identifica in un turbamento, in un misterioso disagio: un’ansia di uscire da un involucro sociale, da una convenzione morale. Quella convenzione può anche assumere… l’antico e seducente aspetto del dovere: ed ecco che il contrasto secentesco tra dovere e passione, tra onore e infrazione si riproduce in tutta la sua drammaticità…”.
Baldacci segnalava inoltre come lo spettro della morte fosse una presenza incombente negli scritti di Spina. Un esempio illuminante (e quanto mai suggestivo) si può ritrovare nel brevissimo racconto In camera oscura (contenuto nella silloge Nuove storie di ufficiali, 1994).
Nell'”oziosa e frivola” società coloniale, una giovane donna scopre d’essere segnata da una male incurabile. Chiamerà un fotografo molto particolare con un occhio di vetro per essere immortalata: un artista che “non faceva fotografie istantanee ma solo pose ben preparate, come i fotografi patentati nelle occasioni cerimoniali, oppure ritratti solitari e lievemente morbosi, tutt’intorno al soggetto un alone latteo o sulfureo”. La donna verrà ritratta in tutte le pose e in tutte le espressioni: “gaia, malinconica, attenta, sognante, aggressiva, assente…”. Lascerà gli scatti al piccolo figlio, poi fuggirà perché né lui né gli altri vedano lo sfacelo del suo corpo. Il suo ultimo saluto sarà: “La vita deve sedurre a vivere e io voglio essere con la mia immagine in questo flusso, non voglio che la collochi al cimitero, dove la vita ha fine”. E ancora: “Ecco a cosa serviranno le fotografie di eleganza, di desiderio e di vanità intatta che gli lascio. La mamma lo conduce per mano nella luce: assente, lo fa per immagini”.
Spina è stato un profondo e inquieto indagatore del mistero della vita. Per comprenderlo, basta anche soltanto compulsare il gigantesco tomo che raccoglie il suo ciclo di scritture cirenaiche (I confini dell’ombra, che contiene romanzi e racconti), pubblicato con coraggio e con merito sempre da Morcelliana. Nel 2007 gli valse il prestigioso Premio Bagutta. La sua opera più recente, Elogio dell’inattuale, è uscita soltanto pochi mesi fa ed è fortemente evocativa fin dal titolo. Risulta davvero uno splendido commiato dai suoi lettori, certamente meno numerosi di quanto avrebbe meritato.
Tra le sue pagine si ricordano i suoi numi tutelari, le sue amicizie (imprescindibile quella con Cristina Campo: Conversazione in piazza Sant’Anselmo è il titolo della prima edizione loro meraviglioso carteggio), la cartografia dei suoi interessi. Tra questi, c’è un ricordo di Hoffmasthal. È un pezzo memorabile che elogia e ripercorre la “memoria” (1948) di Carlo Jacob Burckhardt che a sua volta così rievocava l’ultima lettera e la morte del grande autore viennese: “Rodaun, 14/VII/1929: Ieri nel pomeriggio una grande sciagura si è abbattuta sulla casa di Rodaun. Durante un violento e cupo temporale il nostro povero Franz [il figlio] si è tolto la vita con un colpo alla tempia. La causa di questo grave fatto sta in una profondità infinita: negli abissi del carattere e del destino. Una causa esteriore non c’è stata. Avevamo fatto colazione insieme – in pace e armonia. C’è qualcosa di infinitamente triste e di infinitamente nobile nel modo in cui il ragazzo ha lasciato la vita. Non aveva mai saputo comunicare sé stesso agli altri. Anche la sua dipartita è stata silenziosa… Con amicizia, suo Hofmannsthal”. Una lettera straziante e pudica che suscita nel lettore una sorta di stupore. È pur un padre che parla! Il figlio insanguinato, insepolto in casa. Ma era la fine. Il giorno successivo, il 15, quello della sepoltura, il poeta disse che aveva fatto uno strano sogno: cercava di prendere dall’attaccapanni il suo cappello e non riusciva. Venne l’ora del funerale. Hofmannsthal è alla porta di casa, allunga la mano per prendere il cappello, si disse, e stramazza al suolo: la fine. Il 18, alla presenza di migliaia di persone, è sepolto accanto al figlio, nel cimitero di Kalksburg».
Intrecci di storie e memorie. Questo era quanto interessava ad Alessandro Spina. Un narratore dalla prosa di seta che amava dialogare con i fantasmi del passato per avere luci sul presente. Un uomo che per tutta la vita si è lasciato sedurre dai confini dell’Oltre.