I presupposti ideologici che ci hanno condotti nella spirale di questa crisi trovano origine in una cultura economica che si è venuta a radicare a partire dagli anni ottanta. La cultura economica a cui ci riferiamo è – in estrema sintesi – quella che riafferma le vecchie convinzioni del liberalismo squisitamente capita lista ed è quella – anche se con diverse sottolineature – che ribadisce: il dogma della “mano invisibile”; il primato economico del capitale su tutti gli altri fattori produttivi anche rispetto al lavoro e il principio che lo Stato deve sol o interessarsi dei servizi essenziali (sicurezza, istruzione, sanità) e non deve mettere in essere produzioni da collocarsi sul mercato e deve essere totalmente neutrale rispetto alle vicende dei mercati, limitandosi – proprio se è necessario – a suggerire qualche regola comportamentale.
Questa tipologia culturale, che ha avuto nella scuola di Chicago il punto di massimo riferimento, ha preso piede in molte accademie ed è venuta a costituire il retroterra di riferimento di molte scelte micro e macroeconomiche; ha contribuito (direttamente o indirettamente) all’esaltazione dell’individuo (numero) a sfavore della persona (centro di interessi e di bisogni); ha sottolineato, e spesso anche esaltato, il principio del tornaconto nelle scelte economiche; ha messo in essere tutta una serie di “ipotesi” e di “prodotti” con lo scopo di far prevalere l’aspetto finanziario delle scelte economiche rispetto alla portata degli obiettivi e dei risultati all’economia reale e, di conseguenza, ha veicolato anche un’economia centrata più sulla “scommessa” che sull’utilità delle produzioni, un’economia fatta per i “furbi”, ma sostanzialmente foriera di illusioni di facili ricchezze.
Questa cultura, che nella sua esaltazione è stata viatico e cornice del perseguimento del profitto da raggiungere – nelle date congiunture – nei suoi livelli massimi e nel più breve tempo possibile, ha convertito molti attori economici a dissociare sempre più i risultati da perseguire rispetto agli effetti sociali che avrebbero messo in essere, ha “liberato” qualunque scelta economica dalle strettoie e dai laccioli dell’etica condivisa e dai presupposti solidaristici del bene comune. La miopia delle scelte così effettuate ha prodotto meno produzione real e e ha contribuito a determinare gli attuali livelli di disoccupazione.
Questa cultura, per come si è detto, è penetrata, e per molti aspetti si è radicata, nel tessuto socio-economico, si è imposta come il parametro-misura più immediato per i giudizi che accompagnano le scelte e le operatività anche nell’attua le tempo di crisi. Così operando si è contribuito all’abbassamento dei livelli di solidarietà e di equità che la cultura del libero mercato, quello rispettoso delle regole e della reciprocità, aveva considerate come indispensabilmente utili e si è venuta a generare un’economia che possiamo definire del “non bene comune”.



L’economia prettamente finanziaria ha tradotto in “prodotti finanziari” anche le stesse imprese per cui il loro valore non è più determinato da ciò che esse producono, dai livelli occupazionali che garantiscono, dagli effetti sociali che generano, dalla responsabilità che hanno assunto con il territorio in cui sono sorte, ecc., ma sono apprezzate solo in funzione della loro capacità di produrre profitto, inteso, quest’ultimo, come “sovra ricompensa” al capitale proprio in esse investito rispetto ad una remunerazione adeguata che ricompensi il capitale (oltre a quanto poteva essere remunerato sul mercato se non fosse stato investito nell’impresa) anche del cosiddetto rischio generico che è ontologico all’attività d’impresa. In questo modello capitalistico-finanziario dell’impresa il capitale e le sue più alte ricompense possibili sono, in modo miope, gli unici parametri di giudizio economico e di riferimento affinché l’impresa sia “degna” di sopravvivere e di svilupparsi. Anche in questo caso, il perché ultimo è dato solo dal raggiungimento di obiettivi meramente tornacontisti.
Nel momento in cui le imprese sono astrattamente apprezzate alla stessa stregua di un prodotto finanziario, allora esse sono svuotate della loro stessa natura, in quanto viene camuffata la loro stessa ontologia (che è quella di essere centri sistematici di produzione di beni e servizi socialmente rivolti a soddisfare bisogni) per evidenziarne in maniera assoluta la loro capacità di essere in grado di produrre, oltre che al normale reddito, anche livelli di mero profitto. Il sistema d’impresa viene snaturato anche della sua portata sociale in quanto “luogo” aggregante (tramite la sua capacità organizzativa) dei diversificati interessi in esso confluenti. Questi interessi vengono, di fatto, slegati rispetto all’unitario fine sociale in quanto vengono resi maggiormente precari i reciproci rapporti proprio nella misura in cui viene posto al centro di tutto solo l’interesse del capitale (che spesso, specialmente nelle grandi imprese è estremamente frazionato e non riconducibile ad una persona o ad un gruppo convergente di persone) a discapito degli interessi degli altri fattori (soprattutto del fattore lavoro) e degli interessi che storicamente le imprese hanno instaurato con l’ambiente dove sono sorte e si sono sviluppate.
Rispetto al territorio in cui risiede, si deve osservare che una volta costituita, l’impresa modifica con la sua presenza l’economia (e spesso non solo l’economia) del territorio ove si colloca e con questo, di fatto, assume un rapporto di responsabilità sociale. L’impresa pur “appartenendo” al suo patron, in virtù del le sue stesse prerogative, assume anche un’appartenenza sociale rispetto al suo territorio.  



Necessita però osservare come l’impresa, in maniera del tutto particolare, deve assumere una più immediata e diretta responsabilità sociale nei confronti di quelle persone con cui ha messo in essere rapporti sistematicamente duraturi; rapporti che hanno la capacità di interferire con e sulla vita di quelle persone, le quali hanno “scommesso” sulla sua fattiva sopravvivenza e anche su questo presupposto hanno costruito i progetti della propria vita, intendo riferir mi in particolare ai lavoratori che l’impresa ha assunto e che insieme ai conferenti il capitale proprio costituiscono ciò che spesso viene individuato come “comunità aziendale”.
Quando l’impresa non sente più una stretta comunanza di interessi con il territorio che si è scelta e non può più essere individuata come una “comunità” ove il lavoro e il capitale – in quanto fattori produttivi maggiormente coinvolti – hanno il comune interesse alla sua sopravvivenza nello sviluppo o insieme si sostengono per superare le congiunture sfavorevoli, ma viene “apprezzata” prevalentemente solo nella misura in cui sia in grado di perseguire livelli di profitto superiori all’adeguata ricompensa del capitale, allora in maniera artificiale l’impresa (ma sarebbe meglio dire il capitale proprio in essa investito) viene sciolta dai suoi vincoli sociali e diviene uno strumento meramente finanziario su cui e con cui scommettere.
La cultura capitalistico-finanziaria, di fatto, rende l’impresa alla stregua di un prodotto finanziario anche rispetto alle scelte gestionali o straordinarie che debbono essere effettuate dal suo management. In altre parole, la priorità assoluta diviene l’interesse del capitale. Ciò accade perché questa cultura (palese mente o meno) riconosce che solo ed esclusivamente al capitale compete la priorità (di diritto e di scelta) rispetto a tutti gli altri fattori produttivi (lavoro compreso), per cui al capitale deve essere riconosciuto un vantaggio sugli altri fattori della produzione che gli permetta di avere le mani libere sia sulle operazioni di normale gestione che su quelle di straordinaria gestione che le con giunture socio-economiche possono, di volta in volta, proporre. Per cui solo il capitale può scegliere le condizioni economiche della produzione e solo ad esso spetta, nelle situazioni congiunturalmente sfavorevoli, la decisione ultima rispetto al restare sul proprio territorio o di ricercare “luoghi” maggiormente profittevoli in cui migrare. 



(2 – fine)