Nella nuova pubblicazione, intitolata: “Pensare de-civitate. Studi sul De civitate Dei” Fidelibus continua a riflettere sull’opera agostiniana e in particolare sull’intreccio di ragione, religione e città, ma in un orizzonte più vasto, che va ben oltre l’ottavo libro, per abbracciare tutta l’opera ed estendersi anche alle Confessiones ed altri libri agostiniani. Oltre che per l’ampliamento dell’orizzonte, la riflessione si arricchisce ora di un maggiore e più puntale approfondimento di quei temi, conseguendo notevoli risultati sul piano teoretico ed epistemologico. Altra particolarità di non minore rilevanza è che in questa nuova riflessione l’autore non si limita a indagare e analizzare il dialogo di Agostino con i suoi antichi interlocutori, Platone, Plotino e Cicerone su tutti, ma si apre a un dialogo anche con autori dei nostri tempi, il più delle volte specialisti degli studi agostiniani ma talvolta anche critici del cristianesimo.



Un esempio di questa apertura al dialogo, e precisamente con Friedrich Nietzsche, è offerto dal primo capitolo dal titolo: “Grazia e storicità nel disegno del De civitate Dei: un percorso di ragione”. Il filosofo tedesco, in merito all’affermazione storico- politica del cristianesimo nei secoli quarto e quinto, aveva osservato che tale successo era dovuto in realtà a un vero e proprio tradimento della ispirazione originaria del Fondatore e dei suoi seguaci “più puri e veraci, che solevano porsi fuori del mondo e non si curavano del “processo dell’idea cristiana” e per questo essi sono rimasti per lo più del tutto sconosciuti alla storia”. Il successo storico del cristianesimo , a suo avviso, sarebbe dovuto “a uno strato assai terrestre e oscuro di passione, errore, avidità di potere e di onori, di forze ancora attive dell’imperium romanum, uno strato da cui il cristianesimo ha preso quel gusto terreno e quel residuo terreno, che gli hanno reso possibile il perdurare in questo mondo e gli hanno dato per così dire la sua stabilità”. Agostino, dunque, non dà alcun credito a quella differenziazione, avanzata da Nietzsche, tra seguaci “più puri e veraci” del cristianesimo e quelli che tali non sono”. Per lui la vera differenza esiste solo tra seguaci e non seguaci dell’avvenimento cristiano. Si tratta, cioè di una differenza di cittadinanza e per la cittadinanza, che ha una connotazione giuridico-normativa, basata sul principio di sovranità, e non etico-imperativa, basata invece su quello di coerenza morale. Infine, l’incardinamento operato da Agostino della “dottrina della grazia” nel quadro teoretico dello schema delle due città e, viceversa, di questo nell’economia salvifica di quella, consente di ripensare più realisticamente la questione nietzschiana del “successo storico”, liberandola dal ricatto delegittimante della possibilità storica dell’insuccesso, in ragione di “un’altra cittadinanza”. Quel che veramente conta per il cristiano Agostino non è tanto il successo nella storia, come pensavano i pagani del suo tempo, che misuravano la verità religiosa dal successo nel mondo, quanto piuttosto il raggiungimento della felicità eterna.



In sostanza, “al percorso delineato da Agostino nel De civitate Dei non risulta affatto applicabile la divisione nietzschiana fra un cristianesimo “puro e verace”, in quanto si ponga fuori del mondo, e uno, massificato e inautentico, poiché preoccupato della sua “potenza storica”… Il cristianesimo, come è delineato nella prima parte del De civitate, stabilisce un rapporto di familiarità con la storia, prospettandosi come l’annuncio di una “via universale per la liberazione delle anime”. Nella seconda parte, delineando lo schema delle due città e del loro rapporto, Agostino non delegittima la civitas pagana, ma profila l’esistenza di un’altra civitas, che si qualifica nella storia come Chiesa, corpo di Cristo, nel tempo e nello spazio, indicata come il luogo del permanere del suo Fondatore e della sua universale azione liberante (p. 43-44).



La ricostruzione di Fidelibus, nel seguito delle argomentazioni, rende ragione del fatto che, contro la diffusa opinione, che lo considera un platonico, il modello antropologico di Agostino è ben diverso: ed è proprio il pensiero delle due città a farlo emergere con massimo rigore teoretico. Egli conosce e fa sua la teoria stoico-peripatetica della oikeiosis, secondo la quale nell’uomo, a un innato amore di sé e di vivere in un corpo sano, si accompagna l’amore dei propri familiari, amici, concittadini e di tutti gli abitanti del mondo dotati di ragione. Secondo la stessa teoria tutti costoro sono orientati da una legge di natura al conseguimento della pace, come il bene senza del quale non si possono soddisfare le altre esigenze naturali e godere ordinatamente di tutti gli altri beni. In altre parole, al conseguimento della pace ai diversi livelli si giunge, osservando l’ordo naturae. Ebbene- osserva Fidelibus- secondo Agostino è proprio da questo orientamento naturale alla pace e alla soddisfazione, comune a tutti gli uomini, che si deve partire per ripensare la nozione di civitas e di popolo superando la riduttiva visione ciceroniana del De republica ma anche gli attuali emuli di una tale riduzione.

Se la civitas Dei, che vive con la speranza della vita eterna, è retta da norme ispirate direttamente all’ordo naturae e alla lex aeterna, la civitas terrena o civitas hominis, che ha di mira solo la pace temporale, è retta da norme idonee a creare e custodire una convivenza concorde e pacifica tra i cittadini, nelle cose che amano, cioè nei beni propri della vita terrena. Tuttavia, le due città, pur così distinte per origine, norme giuridiche e obiettivi finali, non sono condannate a vivere in un conflitto insanabile. I cittadini delle due città, in quanto esseri della stessa natura razionale, hanno in comune il desiderio e il bisogno della pace temporale. E su questo terreno sono chiamate a collaborare: lo Stato rispettando la libertà religiosa; la città di Dio riconoscendo l’autorità delle leggi civili e contribuendo a creare una società giusta e concorde (CD 19,17).

Ma concentriamoci particolarmente sull’ultima parte dello studio, la più consistente per numero di pagine ma anche per le acquisizioni teoretiche e epistemologiche raggiunte. Qui Fidelibus tratta il tema dell’esperienza in quanto locus della razionalità nel pensare. A dare l’avvio a tale riflessione è un’affermazione ricavata da un’espressione biblica, secondo la quale “ciò che è da sempre, si dice che accade in qualcuno, quando si incomincia a conoscere”…. In concreto ciò vuol dire che Dio, che vive nell’eternità, intervenendo nel tempo a favore degli uomini, si lascia conoscere dall’uomo. Una simile idea è in flagrante contraddizione con l’epistemologia platonica, per la quale dall’esperienza del mondo sensibile non si può mai risalire alla verità immutabile, oggetto solo della conoscenza intellettuale. Pur essendo un ammiratore della speculazione platonica per i tanti positivi risultati raggiunti sulla conoscenza di Dio, così vicini alla verità cristiana, Agostino si chiede il perché di questa posizione, che sottrae l’esperienza sensibile alla razionalità del pensare. La spiegazione gli appare evidente in un principio, sommamente condizionante, enunciato da Apuleio, un platonico del secondo secolo e conterraneo di Agostino. “Nessun dio- dice costui- comunica con l’uomo”. Si annida, dunque, qui, proprio nella concezione teologica , la pregiudiziale, che impedisce all’uomo di attingere dall’esperienza ragioni per alimentare il suo pensiero: tra Dio e l’uomo c’è piena incomunicabilità. Ebbene, se è vero che il Dio rivelato nella Bibbia come “Colui è” coincide con il Dio immutabile ed eterno, conosciuto con l’intelligenza anche dai platonici, è anche vero che egli si rivela altresì come “Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, ossia come colui che interviene nella storia secondo un suo disegno di salvezza.

E’ stata la comprensione di questa verità teologica, ispirata dalla fede, che ha permesso a Agostino di scrivere le Confessioni. Mentre nei Soliloquia aveva detto a Dio: “Che io conosca me e conosca te”, ora all’inizio delleConfessioni lo invoca dicendo: “Dimmi, Signore mio Dio, dimmi chi sei tu per me. Dì all’anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo che io l’oda…rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto”(Conf 1,5,5). Dunque, il volto nascosto di Dio si manifesta a Agostino, quando lo riconosce operante la salvezza nella sua vita. Dall’analisi dei testi agostiniani, pertanto, Fidelibus può a ragione concludere: “La tradizione biblica delinea una razionalità che sorge proprio dal riconoscere a Dio ciò che la razionalità platonica preclude per principio: l’iniziativa, appunto, di farsi conoscere dagli uomini entrando in un dialogo storico-esistenziale con essi, sfondando- per sua opera- la distanza metafisica nella quale viene tenuto e sentito. Solo così il Mistero divino ne può intercettare, per via di esperienza, le dinamiche razionali, rendendo più facile e possibile il Suo riconoscimento infrastorico”. Ma- osserva ancora Fidelibus- proprio alla possibilità di questo intervento di Dio in qualcuno, collegato al fatto che “questi ne può far la conoscenza” è sospesa, ultimamente, l’eventuale costituirsi di una civitas-Dei. Ecco perché elevare a principio normativo l’impossibilità di Dio di comunicare, in quanto Dio, con gli uomini equivale inevitabilmente a decretare l’impossibilità, ovvero l’impensabilità di diritto di una civitas Dei. Il postulato platonico nullus deus miscetur homini frappone un distacco intranscendibile fra Dio in sé, come termine di speculazione, e il Dio per noi, esperibile conoscitivamente in quanto origine, consistenza e senso del vivere umano storicamente situato”.

Altro tema sviluppato. Il richiamo a ragionare a partire dall’esperienza è il metodo seguito costantemente da Agostino nel dialogo critico con i pagani, come si rende esplicito all’inizio del secondo libro del De civitate Dei, quando denuncia nei suoi interlocutori “ la grande cecità, per cui non vedono neppure le cose più evidenti, e l’ostinata caparbietà, per cui non accettano neppure ciò che vedono. Di qui-dice- nasce la necessità di ripetere più diffusamente cose chiare, come se avessimo non solo a prospettarle a chi le vede, ma addirittura da farle toccare con mano, per così dire, a chi procede a tentoni e ad occhi chiusi” (CD 2,1). Fidelibus commenta: “Egli ( Agostino) rileva nelle posizioni dei suoi interlocutori il fenomeno dello svuotamento conoscitivo della ragione, a causa della rimozione dell’esperienza e del suo valore epistemico dal terreno stesso della razionalità nel pensare. La questione nodale, cioè, non appare tanto “il credere in Dio”, ma la facoltà che s’intende riservare alla ragione di riconoscere la realtà, sottomettendosi primariamente a quanto essa constata nel vederla e nel toccarla sensibilmente. Ciò che è sotto accusa è propriamente la negazione del valore metodologico dell’esperienza nei pensatori pagani e la sua sostituzione con una misura preventivamente stabilita e irrazionalmente ad essa imposta. Per Agostino, come si può vedere, la riduzione dell’esperienza a misura preconcetta viene a coincidere con la depressione della facoltà veritativa della ragione tout court. Riportare, dunque, la ragione sul piano dell’esperienza per restituirla alla sua originaria vocazione conoscitiva segnala uno degli apporti già rilevanti della fede confessata da Agostino in quel mondo tardoantico di incipiente barbarie e ormai appesantito dall’ipertrofico moltiplicarsi di pratiche religiose a sfondo mitico- superstizioso ”(p. 232). L’autore del De civitate Dei chiede agli intellettuali del suo tempo di riconoscere che “quello che passava per religione era in realtà un ordito di finzione e di impostura”.

L’invito agostiniano a partire dall’esperienza, tuttavia, – osserva ancora Fidelibus,- suona ragionevole solo e proprio in quanto nasce sul credito dato alla sua esperienza e da un atto di accettazione, posto in prima persona. In questo senso l’argomentare proprio del De civitate è da considerarsi strettamente legato all’esperienza narrata nelle Confessiones: l’orizzonte di pensiero del De civitate Dei costituisce per l’autore il compiersi di un’avventura conoscitiva iniziata sotto il segno dell’esperienza documentata nelle sueConfessiones. Abbiamo qui una lettura originale e suggestiva del capolavoro agostiniano, che Fidelibus illustra con l’analisi di diversi testi messi a confronto. Agostino è uscito dalla sfiducia nella ragione e nella vita, sottomettendosi a Cristo mediante la fede. “Senza di lui- confessava- dispererei. Le mie debolezze sono molte e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Avremmo potuto credere che il tuo Verbo fosse lontano dal contatto dell’uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e non avesse abitato fra noi”. La stessa sfiducia di poter conoscere Dio ed essere felici in lui, si era impadronita di tanti intellettuali pagani, convinti che nessun dio comunica con l’uomo. In preda a questa sfiducia Apuleio diceva: “ A chi indirizzerò le mie preghiere? A chi, nominandolo, farò voto? Per chi immolerò una vittima? Chi invocherò per tutto il corso della vita come soccorritore degli infelici, sostenitore dei buoni e oppositore dei cattivi? E chi infine assumerò quale testimone nei miei giuramenti…Dovrò giurare per il sasso di Giove secondo l’antichissimo rito romano?”

Agostino aveva aderito alla setta dei manichei, attratto dalla promessa di poter giungere alla verità con la ragione, evitando di accettare la fede imposta dalla terribilis auctoritas della Chiesa, ma invece di trovare la verità promessa, era caduto in un grossolano materialismo, popolato solo da fantasticherie. Aveva poi letto con entusiasmo i libri dei Platonici, scoprendo l’interiorità e il mondo intelligibile. Ma anche questa esperienza, all’inizio tanto promettente, aveva finito per deluderlo profondamente. Solo la scoperta di Cristo, il Verbo fatto carne, si era rivelata decisiva per la sua vita. Ebbene, agli intellettuali pagani del suo tempo, seguaci più o meno fedeli di Porfirio, Agostino propone la propria esperienza, ossia la fede in Cristo, come la vera via che conduce alla verità. Egli denuncia il dualismo prodotto tra la verità e il metodo nella loro razionalità a motivo di alcune pregiudiziali, che si oppongono alla fede cristiana. In concreto le pregiudiziali da rimuovere sono tre. La prima, comune a manichei e platonici, è di natura noetica, dovuta a un dualismo metafisico-antropologico, che rende insormontabile nell’uomo la divisione tra anima e corpo e costituisce un’obiezione di principio all’annuncio del Verbum caro. Una seconda pregiudiziale di ordine speculativo opera una sorta di dualismo epistemico tra verità e felicità: essa, mentre frappone una notevole divisione tra la componente affettiva e quella raziocinativa dell’esperienza umana, comporta altresì una frattura di fondo tra ragione e religione. Il platonismo, collocando la felicità dell’uomo sul piano astrattamente speculativo dell’idea, rende praticamente impossibile attingere una vera felicità. C’è infine una terza e più decisiva pregiudiziale contro la correlazione tra patria e via, tra verità e metodo: quella di matrice ideologica in forza della quale viene perpetrata una patologica divisione gnoseologica tra ragione ed esperienza. In essa cioè si dà preminenza ad uno schema anziché al portato dell’esperienza. Essa impone così alla ragione un regime alternativo tra il credere e il sapere che investe al contempo filosofia e religione nel complesso mondo della antichità pagana.

Come si ha avuto modo di notare, i temi affrontati da Fidelibus sono tutti di grande spessore speculativo, meritevoli di ulteriore studio e approfondimento. Spero, tuttavia, che quanto ho riferito sia sufficiente a suscitare negli ascoltatori l’interesse per una conoscenza più personale e diretta.

 

(Nello Cipriani)