C’è, in Walter Siti (vincitore del Premio Strega 2013 di cui abbiamo cominciato a parlare in un precedente articolo), certamente, una forma di esibizionismo: porre se stessi come centro di una prolungata (e a volte estenuante) autofiction è un rischio forse spiacevole («Tu non sei sincero», gli dice un personaggio di Scuola di nudo, «sei solo pettegolo su te stesso»); ma è anche un azzardo di verità, un modo – proprio in un’epoca di emergenza dell’identità – di scommettere sul problema dell’io. Ed è proprio l’io il luogo in cui Siti conduce la sua indagine sul e nel desiderio umano; e lo fa in una postura non intimista, né in una balbettante introspezione, ma in un orizzonte di lettura storica, antropologica, sociopolitica, nella convinzione che l’io sia il luogo più preciso e più adatto per verificare lo “stato generale delle cose”.
Può apparire paradossale, ma in Siti è necessario arrivare allo scandalo duro, fastidioso della propria esperienza più intima per poter porgere al suo lettore un’affermazione di questo genere: «Credo che si possa essere d’accordo, però, sul fatto che il grande progetto dell’Occidente, l’unicum che lo contraddistingue fra tutte le società umane, sia l’ambizione di costruire una convivenza senza Dio. […] Dare l’illusione del paradiso in terra è l’obiettivo finale del consumismo; o, se si vuole, il consumismo è una protesta per l’inesistenza di Dio». Un’affermazione che nel suo darsi protegge anche il suo contrario: e cioè che per poter essere gli unici a tentare di vivere senza Dio è necessario che si sia verificato un momento di convivenza con Dio: è cioè necessario, storicamente, che il divino si sia fatto realmente fattore di condivisione storica. Non si può volersi sbarazzare di qualcosa che non è mai esistito.
Come Pasolini (di cui Siti è stato non a caso il curatore delle Opere), Siti ha bisogno di verificare l’Occidente nella sua persona, nel suo corpo. Sembra che il mondo reale possa affermare la sua presenza soltanto in una ferita, in una conflittualità pericolosa, drammatica, a volte sanguinaria. E in questo contesto anche l’esibizionismo può tramutarsi in una forma, un metodo del realismo – e diventare così una forma di propulsione conoscitiva: «Flaubert scrivendo a Madame Roger des Genettes aveva affermato che “la realtà dev’essere un trampolino”. L’intensità che si concentra sul dettaglio è la traccia inconscia di una Totalità perduta; l’Assoluto sepolto nel quotidiano è la speranza ultraterrena di chi ha perso la fede; le parole adatte a descrivere quell’innaffiatoio (scrive ancora Lord Chandos) “se le trovassi, richiamerebbero sulla terra i Cherubini ai quali non credo”. Eros è nel particolare».
Sempre nello stesso testo – un bellissimo libretto del 2012 intitolato, significativamente, Il realismo è l’impossibile – Siti si interroga sul senso della propria attività di scrittore, e dice: «Questo è il “miracolo della presenza” compiuto dal realismo: parole folgoranti che azzerano i distinguo (…), dettagli sottratti al flusso della consuetudine e gettati a illuminare il mistero (…) un realismo che si fa preciso per accogliere il Sacro: un realtà frugata per rivelarne la mancanza, l’inadeguatezza a una luce superiore. Il realismo di Montale che invece di scrivere “girano l’angolo” scrive “scantonano nel vicolo”, ma poi quei passanti non si accorgono dell’Apparizione. Per come l’intendo io, il realismo non è una copia ma un conflitto, una tensione irrisolta e ineliminabile. “I fenomeni di carattere quotidiano e il modo banale e coerente di considerarli”, scrive Dostoevskij in una lettera a Strachov, “non sono ancora, secondo me, il realismo, ma piuttosto il contrario di esso”. Non c’è realismo senza l’orma vuota di Dio».
Il realismo non è quindi un accumularsi di particolari, ma la focalizzazione dello sguardo, l’attenzione alla natura e al senso della cosa stessa, il gesto con cui si cerca l’imprevisto, il barlume di senso, il trasalimento della vita: «Il realismo, per come la vedo io, è l’anti-abitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale – mette in dubbio per un istante quel che Nabokov (nelle Lezioni di letteratura) chiama il “rozzo compromesso dei sensi” e sembra che ci lasci intravedere la cosa stessa, la realtà infinita, informe e impredicabile. Realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà; la nostra enciclopedia percettiva non fa in tempo ad accorrere per normalizzare, come secondo gli stilnovisti gli spiriti non fanno in tempo ad accorrere in difesa del cuore all’apparire improvviso della donna amata. Il realismo è una forma di innamoramento».
(2- fine)