Le celebrazioni in corso del cosiddetto Editto di Milano del 313 d.C. hanno portato di nuovo l’attenzione sul rapporto tra politica e religione. Si tratta, in realtà, di una questione che occupa il dibattito pubblico almeno dal 1989, vale a dire da quando il crollo del Muro di Berlino e la crisi dell’ideologia comunista hanno riqualificato le identità religiose come effettivi fattori di identificazione sociale che giocano un ruolo di primo piano nella configurazione degli schieramenti geopolitici mondiali. Un altro crollo, quello delle Torri gemelle di New York nel 2001, sembrò clamorosamente confermare tale tesi (proposta innanzitutto dallo storico americano Samuel Huntington) focalizzando l’attenzione sul ruolo svolto dalle “teologie politiche” nello scenario internazionale.
Sembrò allora che la migliore chiave di lettura per comprendere il mondo contemporaneo fosse quella del conflitto tra i fondamentalisti islamici e i neo-conservatori “cristianisti” (teo-cons), vale a dire dai difensori dei valori di libertà e giustizia generati all’interno della tradizione occidentale di origine ebraico-cristiana. Dalla critica di tale interpretazione della situazione geopolitica contemporanea trae spunto Massimo Borghesi per rigettare la categoria stessa di teologia politica, espressione con cui egli si riferisce a tutte quelle costruzioni teoriche finalizzate alla legittimazione religiosa di un regime o di una posizione politica. In “Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson. La fine dell’Era costantiniana” (Marietti, 2013), il filosofo italiano ripercorre con chiarezza e grande competenza il dibattito filosofico e teologico dagli anni Venti del Novecento sino a oggi per mostrare che la teologia politica, lungi dall’essere una fuoriuscita dalla secolarizzazione, è in realtà un sintomo di questa.
Se a un primo sguardo, infatti, la teologia politica sembra riposizionare la religione al centro della vita sociale, in realtà essa conduce a una sacralizzazione del regime o della posizione politica che intende legittimare, finendo così per subordinarvi ideologicamente la religione stessa. Se ci si pone da una prospettiva cristiana, l’incompatibilità tra fede religiosa e teologia politica è ancora più evidente. Ciò non significa che la storia cristiana non conosca alcuna teologia politica, tutt’altro. Sin dalla svolta costantiniana da cui abbiamo preso le mosse, che si compie con la proclamazione del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero alla fine del IV sec., c’è la tentazione da parte della cristianità di legittimare l’ordine politico per poter svolgere in esso un ruolo egemone. Il fatto che impedisce il compimento di tale progetto è che con il riconoscimento costantiniano del cristianesimo si introduce nella sfera pubblica occidentale un fattore irriducibile a ogni teologia politica che impedisce alla cristianità di appiattirsi sul suo ruolo ideologico.
Massimo Maraviglia ha recentemente identificato tale fattore sovversivo nell’azione concorde di due aspetti decisivi della fede cristiana: il primato del foro interno (la coscienza morale), ambito inaccessibile a ogni forma di potere, e la dimensione escatologica che, relativizzando ogni potere umano, fa del Regno di Dio il criterio di giudizio del mondo. E ciò nella consapevolezza che tale Regno, vivendo nella dimensione del già e non ancora, non potrà compiersi prima della fine dei tempi.
Nel discorso di Borghesi la critica della teologia politica appare urgente in quanto lo spazio pubblico pluralistico delle società contemporanee si rivela sempre più incapace di realizzare un’autentica collaborazione tra le varie prospettive valoriali in nome del bene comune. Esso appare sempre più colonizzato dagli imperativi impersonali e funzionali della tecnica tipici del “turbo-capitalismo” che rendono gli esseri umani sempre più impotenti a governare le loro vite. E dietro il suadente volto edonistico di tale potere impersonale si nasconde la disperazione che si accompagna alla mancanza di senso. Per rivivificare lo spazio pubblico occorre che lo Stato democratico riconosca le risorse di senso che le grandi tradizioni religiose ancora oggi rappresentano.
È la prospettiva aperta da Jürgen Habermas, l’ultimo grande maestro del pensiero progressista, a partire da un incontro pubblico con Joseph Ratzinger tenutosi a Monaco nel 2004. L’auspicio di Borghesi è che tale episodio possa diventare sempre più l’evento generativo di un nuovo dialogo tra una fede cristiana purificata dalla tentazione teologico-politica e una modernità divenuta “riflessiva”, vale a dire critica nei confronti dell’illusoria identificazione tra emancipazione umana e secolarizzazione. Dal punto di vista cattolico, ciò che rende possibile tale dialogo è la riscoperta da parte del Concilio Vaticano II dell’eredità patristica, in particolare della critica della teologia politica proposta, in un modo che ancora oggi risulta paradigmatico, del più grande padre della Chiesa latina, S. Agostino.
Uno dei maggiori meriti di Borghesi è infatti quello di cogliere e sottolineare l’importanza della linea di ricerca ratzingeriana, tesa a leggere Agostino in una prospettiva autenticamente “liberale”, vale a dire nell’ottica di una distinzione e integrazione reciproca tra l’ambito giuridico-politico, quello morale e quello religioso. Una prospettiva la cui fecondità tanto dal punto vista teorico che pratico aspetta ancora di essere colta sino in fondo.