“Ora sappiamo che siamo mortali” dichiarava il poeta Paul Valery all’indomani della Grande Guerra, esprimendo così, lui il più grande critico e poeta simbolista francese, il sentimento della fine di un mondo. La Prima guerra mondiale fu effettivamente un passaggio d’epoca che ha diviso in profondità popoli, confini politici e sociali, la visione della storia e della vita delle società europee; con il crollo degli Imperi centrali crollava la struttura politica più universale che risaliva alla visione della sovranità propria del Medioevo, erede dello stesso Impero carolingio, e con essa “Il mondo di ieri”, come intitolava i suoi racconti uno dei più grandi scrittori della Mitteleuropa Stephen Zweigg. Ma questa consapevolezza della fine di un mondo è solo al termine del conflitto che emerge nella scrittura, sotto forma di Taccuini e Memorie, di racconti o Romanzi, come interviste giornalistiche o lettere, come saggi e manifesti politici; anzi l’inizio nel’14 era stato segnato da una frenesia interventista, da posizioni vitalistiche e irrazionalistiche che vedevano nella guerra e nella violenza una purificazione del mondo, una palingenesi della società.
È noto in Italia il ruolo avuto dal Movimento dei Futuristi e dalle Riviste, come La Voce, Lacerba e Il Regno che assunsero progressivamente posizioni nazionalistiche e interventistiche; una mentalità, tuttavia, che attraversava anche le avanguardie culturali in Francia, in Germania e in Inghilterra, come nell’Impero asburgico, tanto che si ritrovarono a combattere in trincee rivali amici e compagni nell’arte o nella poesia, come accadde a Charles Peguy, morto nel primo giorno della battaglia della Marna, che con la Somme evoca i luoghi dei combattimenti più logoranti e massacranti di quel fronte.
Da quell’orrore, però, emerse un’altra realtà, più drammatica e perciò più vera, quella dell’uomo, del suo grido come s’intravede nella parabola di Clemente Rebora o di Giuseppe Ungaretti; l’uomo schiacciato dai propri progetti, soffocato dalle quattro mura della sua filosofia e della sua scienza, quella del Positivismo (naufragata simbolicamente alla vigilia della guerra con il Titanic) grida l’esigenza di un senso. In Rebora la guerra si manifesta come un trauma tragico, nel quale naufragano la speranza e la fede dei suoi ideali laici e patriottici, tanto che sembra impossibile un riscatto al Nulla e all’orrore del male che lo circonda in trincea.
Nella frase di Valery, “Ora sappiamo che siamo mortali”, viene a galla, perciò, la percezione della crisi e del fallimento di una visione del mondo, ancor più radicale dell’ottimismo positivista, una visione che 20 anni dopo Martin Heidegger definirà Nichilismo, proprio approfondendo le radici del Nazismo nel pensiero di F. Nietzsche (Il nichilismo europeo, 1936/40, Adelphi 2012 ); quella volontà di potenza e il tentativo di superare i valori della tradizione si scontrava con la realtà dei fatti, coi limiti delle cose e la natura stessa dell’essere umano: “Chiuso fra cose mortali (anche il cielo stellato finirà) perché bramo Dio?”, si domandava nel fango della trincea il fante Ungaretti. Eppure quella domanda non elimina il deserto.
Se osserviamo i paesaggi della poesia ungarettiana, la descrizione, che nella lirica ha sempre seguito i canoni letterari oltre all’esperienza visiva del poeta, s’infrange nell’atrocità della morte e del limite delle cose. Se, come scriveva il grande comparatista E. Curtius “i luoghi letterari, i topoi sembrano dire che la natura stessa è già tutta fatta parola, suono, figura, già tutta nominata prima che un poeta la descriva”, nel paesaggio della guerra, nelle doline carsiche o nei colli della Marna quell’armonia ormai è dissolta e al poeta occorre un nuovo sguardo. Rebora parlava di quei luoghi come di Inferno, in cui era “gettato in faccia ai diavoli della città del Male, Dite”; e alla madre scriveva “dal Calvario d’Italia” (13/11/1915).
In queste composizioni, perciò, l’uomo si fa cosa, una cosa inerte e inutile, “un corpo in poltiglia” esclamerà in Voce di vedetta morta. È un mondo in cui nessuna salvezza sembra affacciarsi: “Nulla al mondo / redimerà ciò che è pena… Di noi i pietrificati di qui”. La guerra è un abisso di “melma”, “poltiglia”, “fango”: un luogo perso e immerso nella desolazione assoluta, in cui lentamente si affaccia una parola tremante: “Fratelli Di che reggimento siete…”, esclama Ungaretti ridicendo parole di solidarietà, di umanità .
Così, paradossalmente, in questo annichilimento nella realtà, il poeta sembra ritrovare, nel suo corpo, la parola, una parola primigenia, sillabata: Valery nei Cahiers parlava di una “lutte entre las sensations et la langue”. Ungaretti, invece, dirà “Quando trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è nella mia vita come un abisso”. Egli parte da un senso del mistero e, al di là delle immagini proprie di Rimbaud sull’abisso e sul “deragliamento” dei sensi, dimostra la capacità della poesia di star davanti al Nulla, davanti al non senso della situazione bellica e davanti al dolore degli uomini.
La parola, appunto, ritrova la sua primitiva vocazione, quella di vocare, chiamare l’uomo all’essere, all’esserci di fronte al non senso; le vocali aperte sono come un pronunciare un appello ai compagni di trincea e al lettore, chiamato a condividere quell’esperienza. La vocale conserva il valore di canto, custodisce il respiro e lo stupore dell’uomo che si ritrova vivo; la vocale, la parola esprime la forza dei sentimenti elementari e primordiali.
In tal modo, sull’orlo estremo dell’orrore si riaffaccia la poesia dell’uomo come un fiore di speranza e questo movimento arriva, attraverso le parole del grande poeta tedesco Paul Celan fino agli orrori dello Sterminio, della Shoah, durante l’altra Grande Guerra, quando scriveva Psalm, col cadere dell’ultimo petalo, dell’ultimo fiore: “È tempo che la pietra accetti di fiorire”. Non a caso nel nuovo Judisches Museum di Berlino una sala è dedicata a Celan e alla sua poesia.