Ricordo un pranzo a Gudo Gambaredo, dove don Giussani ha abitato fino a pochi anni prima di morire. Quel giorno alcune persone eravamo suoi ospiti. A un certo punto mi fermai a guardarlo, e mi sovvenne questo pensiero: tutta la ricchezza e l’umanità che in questo momento risplendono davanti ai miei occhi si sono evolute durante tutta una vita; serviva una vita per far maturare questo uomo. Un’intera trama di fattori che a me sfuggiva, in quel momento, ma che era imprescindibile per capire ciò che avevo davanti ai miei occhi.
Mi è rimasto questo pensiero, come accade per certe provocazioni che entrano nel profondo del nostro cuore e rimangono in attesa di svelare il loro significato. Leggendo il libro di Alberto Savorana mi è tornato in mente quell’episodio, perché leggere le sue 1400 pagine è come entrare in quella ricchezza, grande come il dipanarsi di una vita, di una ricchezza che si esprimeva nella concreta umanità di quell’anziano seduto a tavola con noi.
Entrando nella lettura si diventerà protagonisti insieme a don Giussani. Non sarà possibile restare fuori da semplici spettatori. Proprio per l’intreccio di gesti, di cronaca, di fatti e di interventi di don Giussani, man mano che si legge ognuno si ritroverà nel pieno del dibattito, dello scambio, dell’interlocuzione con ciò che si racconta nei diversi episodi.
La prima cosa che balza agli occhi è che il libro descrive l’esperienza di un amore. Sicuramente il primo amore è quello di Cristo, l’amore di Cristo per Giussani; e anche l’amore di Giussani per Cristo. Da questo punto di vista la prima pagina dell’introduzione rappresenta una perfetta chiave di lettura sintetica; non potremmo riconoscere la passione di quest’uomo, che riflette la passione di Dio per lui, se non nella sua passione per Cristo: «Cristo, questo è il nome che indica e definisce una realtà che ho incontrato nella mia vita. Mentre Cristo si è imbattuto nella mia vita – Lui nella mia – la mia vita si è imbattuta in Cristo proprio perché imparassi a capire come Egli sia il punto nevralgico di tutto, di tutta la mia vita. Cristo è la vita della mia vita. In Lui si assomma tutto quello che io vorrei, tutto quello che io cerco, tutto quello che io sacrifico, tutto quello che in me si evolve per amore delle persone con cui mi ha messo».
Il secondo suggerimento è che questo amore di Cristo non è semplicemente di Cristo, ma di Cristo presente. Questa differenza sottile è determinante per la vita, come si vede quando “don Gius” entra in azione al Liceo Berchet di Milano (è il capitolo 7 del libro). Attraverso la testimonianza degli studenti si riconosce quella battaglia che porta da Cristo, concepito in modo astratto, a Cristo presente, alla presenza di Cristo. Proprio perché Giussani ha questa esperienza può accorgersi del venir meno dell’esperienza di Cristo come avvenimento, di Cristo come “presenza presente”. Egli vi ha dato testimonianza quando si è trovato davanti l’indebolimento della tradizione viva della Chiesa, che già negli anni 50 mostrava i primi sintomi di impoverimento.
Il primo contatto con gli studenti all’interno della scuola, infatti, fa emergere in maniera evidente agli occhi di Giussani tre fattori che egli aveva percepito ormai da qualche anno: «innanzitutto una immotivazione ultima della fede; in secondo luogo una inincidenza della fede sul comportamento sociale in generale e scolastico in particolare; in terzo luogo un clima decisamente generativo di scetticità, che lasciava libero campo all’attacco alla religione da parte di alcuni professori». Don Giussani ha maturato questo giudizio al Berchet, e lo ha ripreso lungo la sua vita nei confronti delle successive generazioni.
Così ha dato inizio ad un percorso educativo che consente di riconoscere Cristo presente − un percorso che valorizza l’esperienza e che rende onore alla ragione. In merito sarà significativo il paragone fra due capitoli del libro, il capitolo 8 dove si presenta Il senso religioso nell’edizione del 1957 e il capitolo 33esimo dove si torna sullo stesso libro, che quarant’anni dopo viene presentato all’Onu. A quarant’anni di distanza, ciò che inizialmente era un libro concepito per i ragazzi delle superiori è diventato un capolavoro, con il quale si paragonano diverse personalità del mondo intero. Leggendo insieme questi capitoli mi pare che si possa sentire un’eco del suo pensiero originario, sorgivo − un aggettivo che poi ha fatto fortuna − sul senso religioso.
Nel capitolo 10 del libro si ritrova un tratto della figura di Giussani che mi ha sempre accompagnato, da quando ne ho sentito parlare: l’idea della vita come vocazione. Proprio in forza di questa concezione nasce la possibilità di vivere tutto nel rapporto col Mistero e perciò la possibilità di un’esperienza affettiva nel rapporto con ogni cosa. In un testo del 1958 dice Giussani: «Dio chiama. La luce, la terra, le cose tutte sono per così dire costituite dalla chiamata di quella voce potente che rompe il silenzio infinito del nulla. Dio mi ha chiamato dal nulla. Fra miliardi di esseri possibili Egli ha scelto e ha chiamato me. La mia vita è costituita da quella chiamata. La mia vita è una voce che mi chiama. Ecco quindi l’idea forza che anima la concezione cristiana della vita: la vita è vocazione». Non c’è da stupirsi se, nel capitolo dove si trova questo brano, compaia subito il riferimento ai “Memores Domini” − la percezione che la fede, proprio perché regge la vocazione dell’uomo nell’interezza dei suoi fattori, può arrivare a sostenere la dedizione totale a Dio. Questo è uno dei contributi che dovremo capire e approfondire nel tempo, formulato da don Giussani nei suoi termini essenziali già dai primissimi anni.
Di fronte a un’esperienza così attraente, di fronte a una serie di fattori così ricchi verrebbe da pensare che siamo già avvinti, che abbiamo ceduto una volta per tutte. Eppure, guardando la propria esperienza ci si rende conto che rimane una certa resistenza a lasciarsi prendere totalmente da un Altro. Vedo spesso in me questa resistenza di fronte alla bellezza, di fronte al vero. Chi riconoscerà in sé tale rischio sarà portato a interloquire con il libro in modo ancora più stimolante.
Come ha fatto il Mistero a vincere non una volta, ma tutte le volte, la nostra resistenza? Serviva una inconfondibile corrispondenza in atto. E qual è il tratto più consono di una tale corrispondenza? Che cosa ci conquista e torna a conquistarci? La sovrabbondanza, il di più di essere. Emerge la sovrabbondanza dell’umanità del “don Gius”, il “di più” di vita − sociale, economica, politica − che si riflette nelle pagine del libro, quasi uno “spreco”, tutto per guadagnare noi, per persuadere noi, per rendere irresistibile l’adesione, dal punto di vista delle ragioni, e dunque trascinare l’affezione. A un certo punto ci si deve fermare nella lettura, sorpresi di come don Giussani si sia sobbarcato una tale fatica amorosa per conquistare coloro che ha incontrato. Alla fine del libro l’indice dei nomi raccoglie tredici pagine fittissime, con centinaia di nomi, non di ignoti. Sono i nomi di cinquant’anni di vita di Milano, ma anche dell’Italia e di tantissime nazioni del mondo. E ci si stupisce ancora di pensare che “serviva” un uomo così inspiegabilmente ricco di umanità per farci incontrare e amare Cristo!
Gli ultimi anni e la malattia hanno una particolare forza nel percorso. Se ne parla dal 32esimo capitolo in avanti. Di fronte alla malattia non ci sono scorciatoie, e man mano che s’invecchia si è molto interessati a capire come va a finire concretamente la vicenda umana. La controprova della verità di questa sovrabbondanza di vita si trova, a mio avviso, proprio nel modo con cui lui, anziano e malato, si è “ingigantito” – se posso parlare così– davanti ai nostri occhi.
Per finire due osservazioni. Di sicuro leggere questo libro è ritrovare Giussani; sono contento che chi l’ha conosciuto molto prima di me riconosca il “don Gius”. Ma è altrettanto vero che leggere il libro è ritrovare sè stessi. Il libro ci lascia in silenzio tante volte: mentre si legge, a un certo punto ci si ferma e inizia un paragone fra quello che è scritto, che dice e che fa Giussani, e noi stessi. Non ci si può domandare chi è Giussani senza domandarsi allo stesso tempo chi siamo noi; e dunque che cosa facciamo del bene che abbiamo ricevuto nell’amicizia con lui.
La seconda e ultima osservazione. Questo dialogo inevitabile con Giussani non è un ricordo, ma avviene dentro un rapporto presente, dentro i rapporti presenti. Sarebbe una triste condanna arrivare alla fine del libro e doversi accontentare del ricordo e quindi della nostalgia. Sarà perciò molto interessante sorprendersi in azione all’interno dei rapporti che ci consentono di non perdere la sovrabbondanza attestata nel libro e di crescere in essa. Disse una volta Giussani in una casa di Memores Domini: «Vi auguro una cosa che è capitata a me: è che abbiate a imparare tutto dai rapporti che stabilite, che un Altro stabilisce per voi, imparare tutto dai rapporti che vivete». Ecco, la cosa più bella nel leggere il libro è che ci si possa scoprire ora dentro rapporti che fanno imparare tutto.
Predicando gli ultimi Esercizi, dove parla di Cristo “tutto in tutti”, riprende una canzone di Giorgio Gaber che dice: «L’appartenenza non è un insieme casuale di persone, non è il consenso a un’apparente aggregazione, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé». E Giussani, domandandosi come avviene questo “avere gli altri dentro di sé”, aggiunge un’altra frase di Gaber: «Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire “Noi”». Don Gius prosegue e dice: «Che cosa è questo noi che nasce? Da dove viene? Nasce da Dio, nasce da Cristo nel Battesimo e investe la nostra vita». Come si manifesta − dice ancora in quella meditazione − come si manifesta questo essere investito da Cristo che ti rende capace di un noi?: «Questa appartenenza vuol dire vivere l’esperienza del padre». Giussani invita ciascuno di noi a riscoprirne la grandezza, che non è un ruolo, ma una condizione per vivere, qualunque sia la forma di vocazione abbracciata. E aggiunge: «Che abbiate a vivere l’esperienza del padre, padre e madre. Lo auguro a tutti i capi, a tutti i responsabili delle vostre comunità, ma anche a ognuno di voi perché ognuno deve essere padre degli amici che ha, deve essere madre della gente che ha, non dandosi un’aria di superiorità ma con una carità effettiva; padri e madri di tutti coloro che incontrano».
Non vedo un modo migliore di questo per spiegare che cosa sia il “centuplo quaggiù” di cui parla il Vangelo.