Faccio una premessa. Utilizzo i social network, navigo molto su Internet. Scarico la musica da iTunes. Mi piace la tecnologia e l’innovazione. Dico questo per non dare l’impressione che la mia riflessione sembri un tentativo anacronistico di riportare indietro l’orologio o di rifiutare l’evoluzione della comunicazione e della vita di tutti noi. Detto questo, mi sembra che vada la pena riflettere su quanto ci stiamo esponendo e su che destinazione avrà il flusso di informazioni personali che quotidianamente mettiamo on line.



Queste considerazioni sono esplose quando Edward Snowden e lo scandalo “big data” hanno aperto un’inquietante squarcio sulla situazione di controllo di ognuno di noi in nome della sicurezza mondiale. “Dobbiamo valutare attentamente” – ha ricordato Evgeny Morozov in un articolo su questo tema pubblicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung e ripreso da Internazionale – “dove siamo e riflettere su dove presto ci troveremo, soprattutto se non riusciamo ad affrontare, giuridicamente ma soprattutto intellettualmente, le tentazioni del consumismo informativo”.



Dobbiamo sapere che le informazioni personali che mettiamo in rete, non solo diventano strumenti di marketing per le aziende che poi ci vendono prodotti, ma anche che diamo a colossi come Google, in cambio dei servizi gratuiti che ci offrono, la chiave per aprire il nostro mondo e per sapere tutto di noi. Non so se avete mai provato a utilizzare la parte ricerca di Google Trend, ma, se lo fate, vi rendete immediatamente conto della profondità, accuratezza e multidisciplinarità di questo strumento incredibile.

Ecco perché, ogni volta che mi collego al mio profilo Facebook e vedo quante informazioni rilasciano molti dei miei “amici”, mi interrogo sul livello di consapevolezza degli utenti. Mi domando se sappiano cosa significa postare tanti momenti indimenticabili della loro vita (la nascita dei figli, il matrimonio, un nuovo lavoro, le vacanze, le feste, un nuovo incontro, eccetera) e di renderli disponibili all’esterno. Lo stesso vale per le opinioni e i commenti o anche, semplicemente, i “like”. Ogni giorno, passo dopo passo, riveliamo qualcosa di noi. Come se buttassimo delle piccole tessere di un puzzle nella rete. Mi chiedo se siamo tutti a conoscenza del fatto che, dall’altra parte, qualcuno con pazienza e tanta tecnologia le sta mettendo in ordine. Lo sta facendo per ciascuno di noi e sta realizzando un quadro pressoché identico all’originale.



Il 27 agosto di quest’anno Facebook ha pubblicato il primo rapporto relativo alle richieste di accesso al materiale degli utenti da parte dei governi. La classifica vede al primo posto gli Stati Uniti, seguiti da India, Regno Unito, Germania e Italia. 

Abbiamo quindi un duplice fronte. Quello del business aziendale e quello degli stati in nome della pubblica sicurezza. E’ come se anziché un grande fratello, ce ne fossero due o se ci fosse un “Giano bifronte” dell’informazione. E in futuro questa situazione sarà ancora più spinta. Nella nostra vita stanno entrando, con nostra soddisfazione, sempre più strumenti che ci fanno vivere connessi e che in cambio di servizi comodissimi, acquisiscono informazioni su di noi. Pensiamo ovviamente a smartphone e tablet. “Cosa succederà” – si chiede Morozov – “tra cinque anni, quando tutti gli oggetti e i dispositivi diventeranno smart, cioè avranno dei sensori avanzati e poco costosi, e saranno collegati tra loro e con internet? Molti oggetti di questo tipo sono già in commercio, e molti altri lo saranno presto: forchette smart che misurano la velocità con cui mangiamo, spazzolini smart che controllano quante volte ci laviamo i denti, scarpe smart che ci dicono quando sono consumate… E poi, naturalmente, c’è lo smartphone che abbiamo in tasca e, presto, gli occhiali Google che porteremo sul naso“.

Ovviamente, tutti questi oggetti aggiungeranno tessere al puzzle e dialogheranno tra loro per ottimizzare la visione d’insieme. Morozov ci invita a riflettere sul fatto che l’Europa, fino ad oggi, ha ritenuto che una legislazione ad hoc potesse essere la soluzione per bloccare la mercificazione delle informazioni. Ma questa visione partiva dalla concezione secondo la quale il cittadino non voleva mettere queste notizie private a disposizione di altri. In realtà, la pratica quotidiana rivela esattamente il contrario. Ogni giorno diamo ai social network, alle applicazioni e ai servizi on line, libero accesso alla nostra vita. Gli diciamo dove siamo, con chi siamo usciti, cosa stiamo mangiando, che musica stiamo ascoltando e tanto altro ancora.

Lasciate perdere” – è l’invito di Morozov – “le leggi: è solo con l’attivismo politico e con una robusta critica intellettuale dell’ideologia del ‘consumismo informativo’ che possiamo riuscire ad allontanare l’inevitabile catastrofe. Il consumismo informativo ha profonde conseguenze politiche e morali (…). Intellettuali e politici dovrebbero impegnarsi per rendere più vivide e chiare queste conseguenze. Dovremmo fare di tutto per contrastare l’apparente normalità economica dello scambio di informazioni. Considerarli ‘solo affari’ non basterà più“.

Tutto questo ci deve far riflettere su quanto viviamo quotidianamente ed essere più consapevoli dello scenario e delle sue implicazioni. Con certi gadget tecnologici già oggi possiamo misurare e condividere in rete il livello di movimento fisico che una persona fa quotidianamente. E se un domani quelli che non utilizzano questi strumenti fossero penalizzati da un punto di vista assicurativo e sanitario perché ritenuti sedentari e quindi più predisposti ad ammalarsi? 

Analogamente Morozov ipotizza che una certa parte degli automobilisti accetti di avere in auto un dispositivo che misura la prudenza alla guida. Cosa accadrebbe a coloro che dimostrassero un livello di attenzione inferiore alla media o che semplicemente si rifiutassero di adottare il dispositivo, insinuando il dubbio di aver qualcosa da nascondere? Pagheranno di più le polizze? “Se la decisione” – afferma Morozov – “di cedere i miei dati personali per un po’ di soldi peggiora la situazione di qualcun altro e lo priva di opportunità, allora devo prendere in considerazione anche un fattore etico, l’economia non basta“. Forse è venuta l’ora di cominciare a farci delle domande, prima ancora che trovare delle risposte.