“1 gennaio. Il tempo è un poco migliorato. Viaggio a Einsiedeln con il padre Urs von Balthasar, traduttore qualificato delle mie opere, gesuita molto distinto. Einsiedeln: prodigiosa grotta paradisiaca, nudo mazzo di fiori architettonico, un paradiso d’oro, d’immaginazione e di colore; dell’oro che ricade su di noi in rotondità blu e rosa…”.
Siamo all’inizio del 1946 e il brano è tratto dal diario di Paul Claudel. L’autore dell’Annuncio a Maria vi fissa lo stupore provocato dall’immersione nella magica atmosfera della grande abbazia-santuario in piena Svizzera, avamposto ardito della fede mariana nelle terre raggiunte dalla Riforma protestante. Se magnifico è il senso di armoniosa bellezza che trasuda dal barocco benedettino di Einsiedeln, ancora più invidiabile diventa il ricordo che possiamo associare all’evento nel momento in cui prestiamo attenzione alla compagnia di cui poté vantarsi quel giorno il massimo poeta della Francia cattolica del Novecento: al suo fianco troviamo un ancora giovane von Balthasar, appena quarantenne ma già avviato a una brillante carriera di vulcanico studioso, dagli interessi iniziali per la letteratura, la filosofia e la pratica della musica ormai approdato, sotto la guida della Compagnia di Gesù, agli sterminati orizzonti di una teologia restituita alle fonti originarie della fede cristiana, nutrita dalla fame di santità e dal fervore di uno sguardo aperto sul centro del mistero che è (come egli lo volle esaltare) il “cuore del mondo”.
Claudel e von Balthasar erano entrati in contatto da alcuni anni, attraverso i libri e il comune amore per la bellezza tradotta nelle forme della scrittura letteraria. Probabilmente l’inizio si collega al trasferimento nello studentato gesuitico di Fourvière, a partire dal 1933, quando insieme a de Lubac e alla scoperta dell’inesauribile tesoro vivente dei Padri della Chiesa dei primi secoli von Balthasar fa la conoscenza delle opere dei grandi autori francesi contemporanei, legge Péguy (che diventerà un altro dei suoi grandi amori), si appassiona a Bernanos e a Mauriac.
Claudel si installò subito ai primi posti nella gerarchia delle preferenze. Von Balthasar si mise a esplorarne a fondo le opere. Le commentò e le riprese incessantemente nel corso del proprio lavoro creativo sul pensiero cristiano. Si piegò a un’immedesimazione che partiva dal desiderio di assaporare i doni del suo moderno Virgilio gustandolo parola per parola, fino a renderlo disponibile nella propria lingua madre tedesca. Noi oggi siamo probabilmente abituati ad associare il nome di Claudel al dramma commovente di Violaine e di Pietro di Craon. Ma per von Balthasar e una critica pressoché unanime il capolavoro del poeta francese è piuttosto La scarpina di raso.
Su questa impegnativa opera teatrale, ambientata nella cornice di un tardo Cinquecento gravitante intorno alla Spagna degli Asburgo, agli albori della rivincita planetaria della Controriforma, von Balthasar concentrò la sua predilezione per Claudel. Pubblicò nel 1939, a Salisburgo, la prima edizione della traduzione in tedesco della Scarpina di raso, unendovi una post-fazione che resta esemplare decifrazione in chiave teologica dei significati profondi delle creazioni letterarie della nostra epoca. Non meno di cinque volte nell’arco della vita von Balthasar ritornò sulla sua fatica di traghettatore linguistico, limandola con cura accanita in vista delle continue riedizioni che l’opera si meritò. E ancora nel pieno della maturità, a chi gli chiedeva quali fossero state le imprese di intellettuale che gli avevano dato più gioia, il teologo della mirabile Trilogia non esitava a rispondere inserendo fra le perle di cui andava fiero proprio la traduzione della Scarpina di raso.
Nel 1943 ne promosse anche la messa in scena a Zurigo, prima che l’opera fosse rappresentata a Parigi. Ma già dalla fine degli anni Trenta von Balthasar era senza pudori nella sua apologia del testo claudeliano. Nella post-fazione del 1939, con una baldanza che sorprende scrive che la Scarpina di raso occupa un posto di assoluto rilievo “nella storia della letteratura mondiale”. La coppia dei due innamorati che ne sono protagonisti, Rodrigo e Prodezza, secondo lui si colloca alla medesima altezza di Dante e Beatrice, di Tristano e Isotta, di Iperione e Diotima (i campioni di un romanzo oggi trascurato di Hölderlin). Anzi, agli occhi di von Balthasar, Rodrigo e Prodezza – lei così “bruciante, la peccatrice, la torturata”, alla fine trasformata “in una fiammeggiante stella rapita nel soffio dello Spirito Santo” – oltrepassano tutti i loro precedenti poetici “per la concezione che essi hanno del loro amore”.
Quali sono le ragioni ultime di questo fascino? Si può tentare almeno di abbozzarlo, mettendosi semplicemente sulle orme dell’interpretazione magistrale che ne ha dato lo stesso teologo svizzero. Fino a poco tempo fa il suo commento del 1939 era di difficile accesso, blindato da una lingua che non è delle più familiari. Ma a sessant’anni di distanza l’edizione nordamericana di “Communio” ne ha fornito una versione in inglese. E ancora in seguito, nel 2002, l’editrice Ad Solem di Ginevra ha trasfuso in un libro la vibrante post-fazione di von Balthasar, per le cure di Dominique Millet-Gérard, che vi ha unito una bella postilla di inquadramento (per l’Italia bisogna aspettare ancora: speriamo non troppo a lungo).
Per von Balthasar, Rodrigo e Prodezza sono “la prima coppia di innamorati cristiani della letteratura universale, in quanto la loro grande passione terrestre è fin dall’inizio abbordata come una questione religiosa”. Al centro, si impone la forza travolgente dell’amore umano, visto nelle sue luci potenti come nelle sue ombre insidiose.
Nella logica di un realismo pienamente incarnato nella realtà del mondo, l’universo dell’eros non può essere ridotto a diabolica mascheratura dell’egoismo malato, che chiama soltanto a intervenire per schiacciare e reprimere, in forza di una “spiritualizzazione” dualistica. Tentazioni di fuga in questo senso non sono mancate nella storia plurisecolare del cristianesimo. Ma anche la precarietà più meschina dell’affezione trascinata dal desiderio istintivo dell’uomo non può annullare del tutto il sempre possibile riscatto dell’amore a strumento di rilancio dell’io, che lo spalanca alla vertigine della donazione per il tutto.
Attraverso l’amore per l’altro da sé, l’io è costretto a uscire dalla prigione della sua solitudine e sperimenta la carica trasformatrice della fusione in un legame che, proprio in quanto spinto dalle ali delle sue radici umane, andando fino al fondo della sua natura più vera, può elevarsi a sacramento di riconciliazione, generando il ritorno all’unità del singolo con un tu che è l’emergenza più prossima del divino da cui l’essere instancabilmente fluisce. L’eros incardinato nella corporeità dei sensi, per quanto fragile e ambigua, si può ribaltare nella fiamma dell’agape che brilla nello splendore dei volti e fiorisce dalla tenerezza del cuore.
L’esito però non è mai scontato, ci ricorda von Balthasar sulla scia di Claudel. La riconversione in senso pienamente umano dell’affezione resa cardine della comunione tra i viventi contiene in sé l’energia dell’assoluto. Esige la consegna totale e definitiva. Vuole il per sempre, il sacrificio di perdersi per l’altro che diventa la via per il guadagno della verità, della bellezza e della soddisfazione più alte. Si coglie che è questo il veicolo che trascina al compimento della vocazione a cui ogni io è inclinato: non è sempre facile riconoscerla, si può anche resistere, ma alla fine il prezzo da pagare per il rifiuto sarebbe la sconfitta dell’aspettativa ultima che ci sorregge nell’esistenza.
Per questo Prodezza non si può concedere a Rodrigo: è già sposata a un altro, le è stato affidato un compito che non può stare compresso nel cedere alle pulsioni del sentimento. Dona la sua scarpina alla Vergine, in modo che, se proprio dovesse cedere in futuro al richiamo del suo amore fuori posto, almeno si lanci verso il male “con un piede zoppo”. Rodrigo, dal canto suo, è condotto a non legarsi all’unica donna che ama con tutto sé stesso. L’affetto impossibile verso di lei scava un vuoto di nostalgia bruciante per l’oltre-misura che non si può circoscrivere: diventa “l’esca di Dio”. Lui non può più fermarsi al contingente che lascia tranquilli. Lo assedia l’infinito della totalità più imperiosa. È di fatto chiamato a offrirsi senza riserve per la conquista cristiana del mondo, oscillando come un gigante sempre in bilico tra le Americhe, l’Africa inospitale, la vecchia Europa e il lontano Oriente, al servizio di un potere assillante nei confronti del quale poi cadrà comunque in disgrazia, vittima di tenebrosi complotti di corte.
Attirato dalle invocazioni di soccorso di Prodezza, tenuta prigioniera dal nuovo marito Camillo, ne accetta in consegna la figlia Maria delle Sette Spade, ma non può impedire che la cara amata finisca vittima dell’esplosione della cittadella da cui avrebbe dovuto evadere. La sua liberazione coincide con la morte del corpo, che la restituisce a quel mondo celeste della perfezione totale che, amando oltre ogni limite fisico, in fondo aveva sempre perseguito.
Per Prodezza e Rodrigo, l’amore raggiunge il suo culmine attraverso un lungo e faticoso cammino in salita, consumando le scorie di cui era intriso. L’unità si compie nell’accettazione di un’ultima, insuperabile distanza. Il possesso lascia il posto a una rinuncia che salva la libertà intangibile dell’altro e il valore della propria, insostituibile, missione nel mondo, ai quali si piegano l’ostinata tenacia del proprio calcolo e la volontà di accaparrare solo per sé. Nell’apparente sconfitta, si annida il paradosso di una vittoria che però gronda di sangue e non si concede alle anime belle, sdegnose di tuffarsi nel mare tumultuante della vita, gonfio di promesse mai sazie.