Quarant’anni fa, il 2 settembre del 1973, si spegneva a Bournemouth, una località sulla Manica, in Inghilterra, John Ronald Tolkien, l’autore del Signore degli Anelli e dello Hobbit, opere che nel Novecento hanno rappresentato un caso letterario le cui dimensioni vanno oltre il valore dell’opera dello studioso inglese, e che testimoniano il suo significato di maestro, in una società che di buoni maestri ne ha un disperato bisogno. A distanza di quarant’anni coloro che lo hanno letto e amato non possono fare a meno di ricordarlo. L’eredità di Tolkien è più che mai viva: nelle sue opere immortali, nelle versioni cinematografiche, nel mondo del fandom e delle nuove generazioni di lettori che lo incontrano, nelle nuove pubblicazioni, come l’intrigante Fall of Arthur.
Tolkien resta una pietra miliare della letteratura dell’Immaginario: non si può prescindere da lui. E’ un maestro che ha tracciato una via, una strada che, come diceva Bilbo, va sempre avanti. A noi cercarla, percorrerla, approfondirla.
L’interesse per questo autore resta ancora alto, alimentato anche dalle versioni cinematografiche del regista neozelandese Peter Jackson.
Tolkien va ormai considerato non solo un autore di successo, ma anche come un autentico classico. Egli ha riproposto, in pieno ventesimo secolo, il genere letterario epico, ridando dignità letteraria all’antichissimo genere della narrativa dell’immaginario, nonostante il cinismo di una cultura dominante che, come Brecht insegnava, doveva fare a meno dei valori, in particolare dell’eroismo. Il professore di Oxford è divenuto così un maestro, un punto di riferimento esistenziale per generazioni di giovani lettori che si sono commosse ed esaltate alla lettura delle sue pagine epiche – così lontane dal realismo spesso squallido che ha imperato a lungo in letteratura – che narravano giustappunto di eroi, di regni perduti da restaurare, di signori del male contrapposti ad elfi, cavalieri e piccole gentili creature, pronte però ad ogni sacrificio per il trionfo del bene: gli Hobbit, personaggi peculiarmente ed assolutamente tolkieniani.
Ci si è interrogati a lungo se dietro questo grande interesse per Tolkien – che come abbiamo accennato non sembra esaurirsi – ci fosse una determinata ideologia. La risposta è sicuramente negativa: risulta riduttiva qualsivoglia “etichettatura” del professore di Oxford, poiché ciò che ispirò e che diede significato alla sua vita e alla sua opera non è riconducibile ad una ideologia, ma ad una visione della vita, ad una concezione dell’essere, dell’uomo, della storia che è ben di più che una ideologia: è una filosofia. Tolkien possiede addirittura quella che potremmo definire una visione teologica della storia, attraverso la quale giudica, con l’autorevolezza di un filosofo o di un profeta le vicende umane; è impressionante oggi leggere il giudizio che nel 1945 ebbe ad esprimere rispetto agli scenari successivi al conflitto mondiale: “Tutto diventerà una piccola maledetta periferia provinciale. Quando avranno introdotto il sistema sanitario americano, la morale, il femminismo e la produzione di massa all’est, nel medio oriente, nell’Urss, nella Pampa, nel Gran Chaco, nel bacino danubiano, nell’Africa equatoriale, a Lhasa e nei villaggi del profondo Berkshire, come saremo tutti felici… Ma scherzi a parte: trovo questo cosmopolitanesimo americano terrificante“.
Tolkien come critico della modernità, dunque, del mondialismo, della omologazione massificante, a cui contrapponeva la cultura dell’appartenenza e del radicamento. In una società multietnica e multiculturale come quella della Terra di Mezzo, i piccoli hobbit difendono la loro Contea, il loro piccolo mondo pacificamente rurale e ricco di tradizioni. Questa avversione di Tolkien per le brutture e gli errori della modernità non è ideologica poiché è realistica, non nasce, cioè, da un idea di mondo, o da un progetto più o meno utopico su di esso, ma dalla constatazione della natura e della condizione umana, segnata indelebilmente dalla Caduta (in termini cristiani dal Peccato Originale), talché il Nemico da battere è sì l’avversario malvagio (Sauron o Saruman) ma è soprattutto il male che si annida infido in ciascuno di noi.
Il ritorno al Bello e al Vero auspicato dallo scrittore di Oxford venne realizzato da lui attraverso il ricorso e il ritorno al Mito, per ridare sanità e santità all’uomo moderno. “Il mito è qualcosa di vivo nel suo insieme e in tutte le sue parti, e che muore prima di poter essere dissezionato“, disse Tolkien parlando ai suoi studenti di una delle sue opere preferite, il Beowulf.
Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità. Il mito è visione, è nostalgia per l’eternità. Il termine “Mito” etimologicamente significa “parola”, e singolarmente sembrerebbe essere un sinonimo di logos, termine al quale in realtà viene spesso contrapposto. Ci permettiamo invece di azzardare una complementarietà delle due espressioni, con sfumature significativamente diverse: il Mito è la parola di chi domanda, è la ricerca, il grido dell’uomo che chiede un significato per la sua esistenza e per il cosmo. Il Logos è la parola che è risposta. Il Mythos presuppone un Logos, così come ogni domanda vuole una risposta. L’uomo è tale se fa domande, se chiede, se cerca. Il Mito porta, di domanda in domanda, alla risposta, al Logos, che è una parola del tutto particolare – è il verbo, ovvero il significato ricercato, atteso, desiderato.
Bisogna dunque guardare a Tolkien non come ad un esponente di un genere letterario “di nicchia”, la Fantasy, ma come ad un vero e proprio classico, come l’Omero cristiano del ‘900.
Così, a distanza di quarant’anni, potremmo dire che davvero Tolkien è più vivo che mai, nei suoi capolavori, nel mondo di appassionati che continua a seguirlo, nei nuovi lettori che è sempre in grado di conquistare.