La risposta di papa Francesco a Eugenio Scalfari non comporta novità teoretiche e teologiche rispetto al magistero papale, almeno a partire dal Leone XIII, papa al centro del cui insegnamento sta un’ampia e articolata riflessione sulla libertà umana. Non c’è alcuna vittoria dell’illuminismo razionalista (non tutto l’illuminismo lo fu) sull’insegnamento della Chiesa e di quella contemporanea in particolare.
Certamente nella storia moderna della Chiesa vi è stata una duratura difficoltà a confrontarsi con l’istanza di soggettività tipica della cultura dell’era postmedievale. Il predominante senso dell’oggettività, come sussistenza propria del vero metafisico e morale, avvertiva come minaccia la considerazione della verità dal lato soggettivo dell’esperienza. In altri termini, per timore dello scetticismo e del relativismo, così diffusi nella cultura moderna, si rifuggiva da una considerazione ermeneutica della verità, cioè da una sua considerazione che tenesse conto del fatto che la verità appare sempre e comunque a un soggetto storicamente determinato. È quello che papa Francesco dice nella sua risposta, quando afferma che non c’è (da parte sua) nessun intenzione di affermare che «la verità sia variabile e soggettiva», bensì che «essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».
Quella vecchia difficoltà, invece, ha frenato a lungo il magistero e la teologia del tempo a riconoscere la componente soggettiva della verità, cioè a valutare sino in fondo che cosa significhi che la verità non è qualcosa che sta là, di fronte al soggetto conoscente, ma una relazione di concordia tra pensiero e realtà, tra la soggettività aperta alla realtà e una realtà disponibile a essere conosciuta. Ritardo cha ha reso difficile anche l’elaborazione equilibrata (non meramente volontarista) di una teoria dei diritti soggettivi, tra cui anche quello della libertà religiosa; riconosciuta e ripensata, infatti, solo nel Concilio Vaticano II (cfr. la dichiarazione Dignitatis humanae).
Con tutto ciò nel grande patrimonio di pensiero cristiano l’idea di “coscienza” in senso morale è già presente a partire da san Paolo (lettera ai Romani) ed è elaborata con precisione nel pensiero scolastico classico, in specie in Tommaso d’Aquino, per il quale in ogni caso l’istanza ultima di valore è riposta nella coscienza; non solo nei casi più difficili e non solo per il non credente, ma in tutti i casi e per ogni uomo. La coscienza, infatti, è qui intesa come organo di valutazione dell’azione concreta, che è in gioco in ogni azione responsabile, cioè moralmente rilevante. In questa prospettiva morale, infatti, al centro sta il soggetto libero personale, il quale dunque ha il dovere anch’esso morale di rispettare la sua dignità, che esige che nulla gli venga imposto, ma che tutto sia vagliato e acconsentito “in coscienza” dal soggetto agente.
Valorizzazione della libertà e della dignità umane che è parte integrante di quell’umanesimo che il cristianesimo ha portato nel mondo; come è ancora visibile nella differenza specifica della cultura occidentale (nonostante tutti i tentativi che questa ha fatto e sta facendo per rinnegarsi). Certamente il ricorso inevitabile e indispensabile alla coscienza ha un implicito conseguente e ovvio; che cioè coscienza non significa “parere”, ciò che appare o si permette di apparire o ciò di cui ci si autoconvince per qualche motivo, bensì capacità di valutare in concreto, che esige la responsabilità morale di indagine sui fattori in gioco, di consiglio presso altri soggetti morali, di discernimento delle alternative secondo criteri accreditati dal punto di vista delle verità morale.
La soggettività della coscienza, cioè, non è la porta d’entrata del soggettivismo morale, ma esercizio critico di libertà che tiene in massimo e accurato conto la realtà in gioco. In breve, la coscienza morale è veramente tale se è “formata bene”. Si tratta infatti, come dice il papa di «decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male». Una volta che di tutto ciò si risponde responsabilmente, allora il soggetto agente, secondo Tommaso, non solo può attenersi alla sua coscienza, ma lo deve; lo deve alla suprema dignità della sua libertà, che è dono di Dio a cui corrispondere.
Tutto ciò − si potrebbe dire – l’interlocutore di papa Francesco poteva già venirlo a sapere, perché è oggi dottrina cristiana comune (v. Catechismo della Chiesa cattolica). Per cui la risposta di Scalfari del 12 settembre su Repubblica all’intervento del papa, secondo cui «un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro» risulta una forzatura. Al massimo avrebbe potuto dire, con verità, che sinora nessun papa era venuto a dirglielo personalmente!
Quello di cui Scalfari, purtroppo, non sembra (ancora) essersi accorto (ma forse anche noi con lui) è piuttosto che papa Francesco desidera rendere accessibile al suo interlocutore un’altra prospettiva, più importante e risolutiva; e che questo è il vero favore che il papa ha fatto a lui, e a noi con lui. Entrando in merito alle questioni poste, con garbo il papa afferma che gli «sembra più fruttuoso [invece che affrontare tutte le sue domande particolari] andare in un certo modo al cuore delle considerazioni» del suo interlocutore.
Tale “cuore” è il cuore stesso del cristianesimo, «l’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana», come scrive il papa, riprendendo quanto affermato già da Scalfari stesso. Ma l’incarnazione del Figlio è una formula dottrinale che prende davvero carne nella novità inaudita della figliolanza: «Dio vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio»!
Gesù è nato e vissuto, morto e risorto per questo, per fare di questa figliolanza la nuova carne del mondo. È un grande dono rendersi conto che questo riplasma l’intero ordine dei principi più veri e dei valori più sacri, perché reinscrive tutto nello spazio divino della relazione e della relazione generativa in Dio (Dio è Padre) e nell’uomo (figlio nel Figlio).
Per questo il papa conclude affermando che «bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione [coscienza e verità, verità relativa e verità assoluta, ecc.] reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario» per un dialogo sereno e costruttivo.
Le contrapposizioni diventano laceranti, se non le si ritrova come polarità interne a una più radicale relazione che le unisce. La verità stessa diventa un’incombente oggettività se la si “slega” dalla relazione di cui è fatta. E tutto nel cristianesimo − si può dire − diventa statico e antinomico, se non lo si colloca nella “logica” divina della relazione che Dio è in sé e per l’uomo: «ora − dice il papa −, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!».
È questa novità sconvolgente e pacificante il “cuore” di tutte le nostre questioni e la sorgente di una inedita intelligenza della realtà.