“La chiesa non sia ossessionata da divorzio, gay e aborto” (Corriere della Sera); “Francesco: la mia chiesa è come un ospedale da campo. Apertura su gay, divorzio e aborto”; “Ma la vera sfida è la difesa dei nuovi poveri” chiosa in taglio basso Hans Küng su Repubblica, rilanciando la posta; “Fine dell’ingerenza spirituale nella vita delle persone”, il Corriere titola il pezzo di Luigi Accattoli. Così i maggiori quotidiani italiani hanno accolto l’intervista concessa da papa Francesco a Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti italiani. Tutti a parlare di vera “apertura”. La Chiesa ha finalmente trovato i Lumi? Ilsussidiario.net ne ha parlato con il cardinale Georges Cottier, teologo emerito della Casa pontificia. “Il mondo vorrebbe che il peccato non fosse peccato, ma questo non è possibile”.



Eminenza, perché papa Francesco è così ben accolto dalla grande stampa?
Da un lato il mondo percepisce in lui, nella prossimità della sua persona e nel suo affetto, la radicale novità del Vangelo; dall’altro, la prima tentazione del “mondo” – uso questo termine in senso biblico – è negare l’esistenza del peccato, e non appena trova una formula che sembra dargli ragione, come le cosiddette “aperture” di Francesco sulla morale, subito la fa propria.



Vuol dire che il mondo cerca un papa che sia dalla sua parte?
È evidente come alcuni giornali abbiano cercato di utilizzare alcune frasi del papa senza tener conto del contesto, che è la globalità dell’atteggiamento cristiano e in ultima analisi la vita di fede. Il mondo vorrebbe che il peccato non fosse peccato, ma questo non è possibile. L’unica via passa dalla “porta stretta” di cui parla Gesù nel Vangelo, ma Egli stesso con la sua grazia ci aiuta e, come ha detto, il Suo fardello è leggero. La legge evangelica è legge di libertà.

Il papa avrebbe reso riconoscibile una verità che “avevamo negli occhi”: “prima il Vangelo, poi la dottrina” (Luigi Accattoli sul Corriere).
La parola di Dio è contenuta nella Scrittura. Ma l’esplicitazione che la Chiesa fa della parola di Dio fa in un certo modo parte della parola di Dio, portando sul contenuto. Anche se lo fa con linguaggio differente – mi riferisco per esempio alle grandi formulazioni che ci hanno lasciato i concili -, anche questo fa parte della dottrina della fede. Non c’è una frattura nella visione cattolica tra la fede e una lettura in profondità della parola di Dio fatta dalla Chiesa, assistita dalla Spirito Santo.



La dottrina non sono quindi i “piccoli precetti” che Francesco contrappone al primo annuncio, “Gesù Cristo ti ha salvato”.

In quel passo il papa si riferisce ai precetti morali. Il magistero della Chiesa è un magistero pastorale; anche questa è dottrina, ma dottrina può significare anche dottrina teologica. La teologia è un sapere umano che si inoltra nel contenuto della fede il quale è inesauribile per il teologo che compie questo sforzo in armonia con l’insegnamento della dottrina. La Chiesa ha raccomandato alcune teologie, ma non ha mai fatto di una teologia un dogma di fede. La stessa pluralità delle teologie esprime il fatto che la profondità della fede trascende sempre il pensiero umano: lo sforzo umano dà i suoi frutti, ma è per sua natura limitato.

Si lega a questo il discorso sul discernimento di cui parla papa Francesco?
Certo. Si può dire anzi che tutta l’intervista è leggibile sullo sfondo della grande dottrina del discernimento.

Perché secondo lei avrebbe una parte così importante?
Tutto quello che il papa dice è per la Chiesa universale, è vero, ma il dialogo comincia sulla vocazione dei gesuiti. Una chiave di interpretazione sta nell’insegnamento di sant’Ignazio di Loyola sul discernimento. È un lavoro che la persona deve fare per capire qual è la volontà di Dio su di lei e qual è la scelta da compiere. Inoltre la fedeltà alla verità evangelica obbliga il cristiano a discernere quello che è compatibile con la parola di Dio e quello che non lo è.

In questo papa Francesco sembra spingersi molto avanti. Non suona strano che un Pontefice parli, sia pure seguendo sant’Ignazio, dell’essere “Dio in tutte le cose”?
Che non sia una visione panteista, il papa lo dice subito. Ha un significato temporale: “il Dio ‘concreto’, diciamo così, è oggi”. Per forza: se Dio non è presente, semplicemente non è. Dice poi che “incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico”: vorremmo che così fosse, ma non è possibile.

Il papa dice però che “in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza”: esiste un relativismo che fa bene alla fede?
Sì, perché ci sono cose relative. Nel mondo non c’è il determinismo totale. Una scelta umana è sempre imposta dal relativo: quando devo scegliere, se si tratta con chiarezza del bene e del male capisco subito quale dev’essere il mio impegno, ma in molti casi se un bene è migliore o minore di un altro, sotto certi aspetti ha dei vantaggi e secondo altri non ne ha. Parlo naturalmente di una scelta estranea alla sfera del peccato. Ebbene, tutto questo implica una contingenza e una relatività che sono lo spazio della nostra libertà.

Dunque il senso del relativo di cui parla il papa non è relativismo.

Assolutamente no. Relativismo è sottomettere al relativo ciò che è assoluto. È dire: non c’è niente che non sia relativo. La conseguenza è dire che lo spirito umano non è capace di verità. Ma già questa tesi è contradditoria, perché dire “tutto è relativo” è una proposizione che si concepisce come necessaria, cioè valevole sempre, a dispetto del suo enunciato.

Un passaggio sorprendente è là dove dice che “la visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata”. Com’è possibile?
Ritroviamo il discernimento. All’interno dell’insegnamento della Chiesa ci sono dei gradi, delle differenze, ma se non si usa discernimento, si rischia di fare dell’insegnamento della chiesa quasi una macchina da guerra. È quello che accade quando viene meno, come dice il papa, la misericordia, l’amore per la persona.

“Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi” dice Francesco. Questo passaggio è stato accolto con enfasi dai media, che hanno parlato di “apertura”. Condivide? 
C’è una morale cristiana, ma il cristianesimo non è una morale. Prima vengono le verità della fede, e l’essenziale della fede sono i suoi misteri, quelli che parlano di Dio, dell’incarnazione e della redenzione, il resto − le regole di vita − sono obbliganti per la coscienza ma non sono allo stesso livello. La rivelazione più grande è l’amore di Dio per noi: Dio ci ama. L’uomo però ha anche coscienza del peccato: e se c’è il peccato, c’è una legge morale che illumina la coscienza sul bene e sul male. Il problema viene dal fatto che se l’insegnamento e la predicazione mettono l’accento esclusivamente sui precetti, la mentalità contemporanea ha buon gioco nel vedere in essi solo una morale del “no”. Ma la fede è innanzitutto una morale del “sì”, quella dell’adesione del cuore a Dio. I primi due comandamenti sono l’amore di Dio e l’amore del prossimo.

Dove sta allora la preoccupazione del papa?
Nel dirci che Dio non è l’applicazione di una legge, un’astrazione nella quale siamo costretti ad entrare a viva forza: Egli ama ognuno di noi, perché per ognuno di noi ha dato Suo Figlio. Se una persona ha subìto un aborto, forse è perché era condizionata dalla pressione dell’ambiente e dalla miseria; la Chiesa non può limitarsi a ricordarle i principi, deve capire il suo cammino, se c’è il peccato aiutarla a uscire dal peccato, se è vittima aiutarla a portare la gravissima ferita che ha dentro. Papa Francesco, in ogni suo gesto, è un bellissimo esempio di questa misericordia.

(Federico Ferraù)


Leggi anche

UCRAINA, RUSSIA, EUROPA/ "Dal corpo di pace alla dittatura Ue, cosa mi ha detto papa Francesco"