Vive negli Stati Uniti, ha superato gli ottanta e lotta contro il cancro. Ha sempre lavorato nel mondo della moda. Ha cominciato in Spagna, con Balenciaga. Poi si è trasferita al di là dell’oceano. È sempre stata molto apprezzata, e le foto che illustrano la sua carriera ne sono la dimostrazione più evidente. Eppure il nome che utilizza comunemente è quello del marito. Ma ora un giornalista del Washington Post l’ha raggiunta e intervistata. Perché lei è la figlia di Rudolf Höss, il primo comandante di Auschwitz, la cui autobiografia rappresenta da tempo una delle letture più inquietanti che la Shoah ci ha trasmesso.



La notizia è presto rimbalzata in tutto il mondo. Brigitte Höss era una bambina, viveva con la famiglia in un villino vicino al campo. Oggi ricorda quei momenti come un periodo felice. Non crede che il padre – condannato a Norimberga e giustiziato all’interno del lager da lui stessi diretto – si sia reso artefice di così tante morti. Sostiene, anzi, che l’ufficiale nazista sarebbe stato indotto a confessare con la violenza. E che, in fondo, è del tutto inverosimile che siano stati uccisi milioni di ebrei: non ne sono, forse, sopravvissuti ancora tanti?



La riscoperta di questa singolare testimone sorprende. Ma a sorprendere in modo ancor più forte sono le sue affermazioni, e anche il constatare che si può nascere e crescere accanto agli aguzzini più spietati, senza avvertire l’orrore, e serbando soltanto immagini di gioia e di affetto. Ancor più colpisce che tuttora si possa assumere un contegno così eccessivamente intimo, come se si potesse ignorare il severo giudizio della storia. Come se un dolore senz’altro personale e radicale, quale certo può essere quello del tracollo di tutta la propria infanzia e della perdita del padre, possa restare comunque immune da tutto ciò che è accaduto a milioni di persone e dalla prospettiva abissale che l’orrore dell’Olocausto ha posto all’umanità intera come presupposto non rinunciabile. 



Quella di Brigitte è una vicenda forse incomprensibile. Se dobbiamo capire, allora ci è più facile farlo di fronte allo sbigottimento di Jennifer Teege, di cui abbiamo avuto notizia sempre in questi giorni: la trentottenne tedesca, di padre nigeriano, ha improvvisamente scoperto di essere nipote di Amon Göth, il “macellaio di Plaszów”, il temibile carnefice ritratto da Spielberg in Schindler’s list. “Mio nonno mi avrebbe sparato”: di fronte a questa verità, la crisi, per lei, donna di colore, è stata inevitabile.

Ecco, di fronte alla storia di Jennifer, quella di Brigitte ci chiede di portare un macigno non meno impegnativo di quello che ci hanno lasciato le vittime. Anche la sua memoria è significativa: per rammentarci come sia poco naturale e per nulla scontato non solo il ricordo, ma anche l’idea, ad esso sempre correlata, dell’irripetibilità assoluta o dell’anormalità profonda di ciò che è stato. Paradossalmente, e dolorosamente, sembra più facile l’opposto, specialmente se ci caliamo nella presunzione di innocenza che solo l’infanzia può sempre preservare. In verità, la storia di Brigitte è la prova drammatica che l’inspiegabile e il terribile sono dentro di noi, in quell’invariabile conflitto, che è psichico e collettivo al contempo, su ciò che è bene e su ciò che è male. E che la nostra scelta è sempre decisiva.