Non potrò mai dimenticare la prima notte in cui riuscii a vedere un horror. In casa, mia madre (da buona madre) vigilava accuratamente perché non si guardassero film violenti. Quelli di guerra con John Wayne (tipo Alamo o Il giorno più lungo) erano tollerati, perché potevano in qualche modo tornare utili per il contesto storico e per la scuola, ma spettri, serial killer e licantropi erano assolutamente banditi.
Lo spartiacque che decretava l’accessibilità di una pellicola era fornito dalle valutazioni morali assegnati da Famiglia Cristiana. Un pallino e una stelletta equivalevano al più disastroso dei giudizi: film senza pretese, quindi, e terribilmente violenti. Esattamente quello che andavo cercando a dodici anni.
Una sera (a cena c’erano troppi invitati da seguire e la mamma era presa da mille preparativi) riuscii a sintonizzare la manopola di una lillipuziana tv in bianco e nero: affrontai così il primo film del terrore della mia vita. Impiegai una settimana (insonne) per riprendermi dallo shock. Per due ore rimasi affascinato dalle avventure di un gruppo di ragazzi assediati in un megastore da fameliche e ciondolanti torme di zombie.
Il film che mi aveva segnato era appunto il celebre Zombie (1978) del newyorkese George Romero, seconda tappa della saga degli “azzannatori” (il primo fu La notte dei morti viventi, 1968), una pellicola costata solo 1,5 milioni di dollari e che aveva finito per incassarne ben 40.
Quel successo planetario decretò la proliferazione di quelle strane creature insaziabilmente affamate di carne umana; vennero nell’ordine (per restare solo alle opere più “classiche”): Il giorno degli zombie (1985), La terra dei morti viventi (2005), Diary of the Dead – Le cronache dei morti viventi (2007), Survival of the Dead – L’isola dei sopravvissuti (2009). Romero ha dato anche una sua interpretazione “sociale” della sua saga: “Ho sempre simpatizzato per gli zombie, hanno un che di rivoluzionario. Rappresentano il popolo solitamente senza idee autonome che a un certo punto, stanco dei soprusi, si ribella. Eravamo noi nel ’68. E ora siamo morti, no? I nostri ideali sono morti, io sono uno zombie“.
Nonostante gli intenti, il mondo degli zombie è però sempre rimasto confinato nel grande parcheggio dei B-movie. Gorgoglianti fiumi di ketchup versato si sono avvicendati negli anni senza il supporto di adeguate sceneggiature.
Per una storia di zombie con i fiocchi si è dovuti aspettare (anche se ci sono eccezioni, come il visionario 28 giorni dopo, con relativo sequel) fino al 31 ottobre 2010.
In quella sera d’autunno, infatti, venne trasmessa su Amc la puntata pilota della serie di The Walking Dead, diretta da Frank Darabont, che ha ripreso il fumetto ideato da Robert Kirkman e illustrato da Tony Moore e Charlie Adlard.
L’accoglienza negli States fu fenomenale e in rete è facilmente rintracciabile la portata del successo. Rimasero incollati allo schermo 5,3 milioni di telespettatori. Un record, che sbloccò immediatamente i finanziamenti per la seconda serie (13 episodi invece dei 6 “prudenziali” con cui si era partiti).
Stephen King (che di thriller qualcosa sa) ha inserito il quinto episodio della prima stagione sul podio dei migliori prodotti tv dell’annata. Ancora, l’ottavo episodio della seconda stagione ha battuto tutti i record delle serie tv trasmesse via cavo. E così via, di record in record, ma si potrebbe citare anche l’indotto del successo che spazia dai videogiochi ai romanzi, dai gadget alle applicazioni per gli smartphone.
Gli ingredienti del cocktail vincente sono molteplici. La regia e il montaggio sono superiori alla media e così gli effetti speciali (il budget per ogni singola puntata è imponente). Ma c’è molto di più. Come insegna Armando Fumagalli nel suo splendido Da Hollywood alla Pixar passando per l’Italia (Lindau, 2012) quello che conta è una buona storia, che metta a fuoco scelte irreversibili e passi allo scanner la psicologia dei protagonisti.
Lo spunto di partenza di The Walking Dead è un topos del genere, ma gli sviluppi sono davvero originali, in particolare per la terza serie. Affrontiamo rapidamente, come in un trailer, gli snodi delle tre annate.
Nella prima puntata il protagonista, lo sceriffo Rick Grames, si sveglia dal coma (era stato ferito al petto in uno scontro a fuoco a un posto di blocco). Il mondo di prima non c’è più. L’ospedale è vuoto. Tutto è rovina e devastazione. Fuori dalle mura ci sono segni di grandi battaglie. La corsa verso casa per ritrovare la famiglia è frustrante: anche la casa è vuota e nei paraggi ci sono solo cadaveri in putrefazione o “morti viventi”. Rick cercherà una via del rifugio, per dirla alla Guido Gozzano, nella città di Atlanta, dove spera di ritrovare qualche superstite e qualche brandello di civiltà. Dopo avventure e battaglie, ritroverà la propria famiglia e, in parte, la propria identità.
La seconda serie abbandona gli scenari metropolitani di Atlanta per farsi più “agreste”.
Rick guida una carovana di superstiti alla ricerca di una sospirata quanto incerta terra promessa. Un incidente (il figlio di Rick ferito per errore da un cacciatore) costringerà la banda a fermarsi in una fattoria (con lati misteriosi, come un fienile stracolmo di zombie) e a ripensare il proprio destino. Ci saranno da dirimere intrecci complicati, come una gravidanza indesiderata, il tradimento di un amico, il destino da riservare ai prigionieri e persino il dilemma se applicare l’eutanasia agli zombie). Il tutto fino a un grandioso episodio finale con un assedio zombie in piena regola. Non sarà la battaglia del fosso di Helm del Signore degli anelli, ma lo spettacolo davvero non manca…
La terza serie, conclusa nella scorsa primavera, ha un ritmo emotivamente forsennato. Il teatro d’azione è un penitenziario. Apparentemente una buona location per Rick & C.: cibo, medicinali e armi in abbondanza. Ma il sentiero sarà irto di ostacoli. Questa volta non ci saranno solo gli incisivi dei mostri a scandire il ritmo della paura.
Emergerà infatti la figura del Governatore: un uomo che, al pari di Rick, ha preso sulle spalle il destino di una comunità e che ha creato un’enclave felice e, apparentemente, ben protetta dagli attacchi degli zombie. Puntata dopo puntata, i lati ambigui del Governatore diverranno sempre più foschi, fino a trasformarlo in un genio del male.
Anche uno sguardo essenziale a queste trame lascia trapelare come in The Walking Dead s’incontrino tre elementi di “poetica” con cui si sono misurati i grandi dell’antichità. La guerra (vedi alla voce Iliade), il viaggio (Odissea), l’Aldilà (il poema di Gilgamesh).
In effetti, i paesaggi devastati per cui s’incamminano Rick & C. sono segnati da bandiere a lutto.
Come sottotitoli di molti inquadrature potrebbero scorrere i frammenti dell’epopea assiro-babilonese: “l’umanità è recisa come canne in un canneto. / Sia il giovane nobile, come la giovane nobile / Sono preda della morte”; “Della dea degli Inferi, / nella Casa dalla quale chi entra non può più uscire, / per una via che non si può percorrere indietro, / nella Casa in cui gli abitanti sono privati della luce; / dove il cibo è polvere, il pane è argilla; / essi sono vestiti come gli uccelli, ricoperti di piume / essi non vedono la luce, essi siedono nelle tenebre“.
Nel pilot della prima serie, I giorni andati, viene presentato in modo magistrale il protagonista, Rick Grames. Non ha tutte le carte in regola dell’eroe tradizionale. Da vicesceriffo, si fa centrare in uno scontro a fuoco relativamente banale per mancanza di precauzione. È giovane, ma già in crisi con la moglie, che lo accusa di essere taciturno e menefreghista. Però, spetterà proprio a lui un compito ben più ampio rispetto alla tutela del focolare domestico.
Dovrà diventare un vero leader, facendo affidamento alla sua tempra morale e incarnando il motto della polizia Usa: to save and to protect. Di lui dirà l’amico (traditore) Shane: “è un poliziotto che si ferma ad aiutare le persone. È duro come la roccia“.
Rick, eroe suo malgrado, come un nuovo Mosè, dovrà portare in salvo il suo gregge e non uscirà indenne da tutte le battaglie. Anzi, nella terza serie dovrà lottare a lungo per non passare dalla parte del male: proverà infatti la seduzione della tirannia, della violenza gratuita o dell’insensibilità nei confronti dei bisognosi.
Può essere che il successo del personaggio di Rick risieda nel rivestire i panni dell’eroe/pioniere yankee (a questo proposito, è mirabile la scena in cui si dirige verso Atlanta con un cavallo e il fucile a tracolla, tosto come John Wayne, carico di speranza come il primo Rocky). Ma è più verosimile che in molti siano stati attratti dalla sua situazione in chiaroscuro: un uomo, debole come tanti, di fronte a prove inaspettate della vita.
Gli incroci “pericolosi”, zombie a parte, saranno molti. Per restare solo alla prima serie: cosa si fa se la moglie ti tradisce con il tuo miglior amico? Si può tornare indietro per salvare un ferito, mettendo però a repentaglio la vita degli altri? È giusta o no la guerra preventiva?
A proposito di questioni “urgenti”: l’intera saga di Walking Dead si dispiega sotto un forte senso religioso. Gli sceneggiatori lasciano ben intendere che la realtà non è soltanto quello che si vede. Che c’è un Bene e un grande Male. L’afflato spirituale è come racchiuso tra due grandi portali, costituiti dal salmo 106 e dal salmo 91. Il primo emerge in maniera implicita, ma è lo stesso contesto desolato a fornirne una sorta di correlativo oggettivo: “Vagavano nel deserto, nella steppa, / non trovavano il cammino per una città dove abitare. / Erano affamati e assetati, / veniva meno la loro vita. / Nell’angoscia gridarono al Signore / ed egli li liberò dalle loro angustie. / Li condusse sulla via retta, / perché camminassero verso una città dove abitare. […]. Abitavano nelle tenebre e nell’ombra di morte, / prigionieri della miseria e dei ceppi, / perché si erano ribellati alla parola di Dio / e avevano disprezzato il disegno dell’Altissimo“.
Il secondo, il 91, viene, invece, chiamato espressamente in causa nel climax della terza serie, quando Rick dovrà decidere se sacrificare o meno un’innocente nelle mani del governatore perché gli altri del gruppo possano aver salva la vita. Opterà per salvare la vittima designata (ritornando sui propri passi) dopo aver ascoltato questi versetti: “Mille cadranno al tuo fianco / e diecimila alla tua destra; / ma nulla ti potrà colpire. / Solo che tu guardi, con i tuoi occhi / vedrai il castigo degli empi. / Poiché tuo rifugio è il Signore / e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora, / non ti potrà colpire la sventura, / nessun colpo cadrà sulla tua tenda. / Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. / Sulle loro mani ti porteranno / perché non inciampi nella pietra il tuo piede. / Camminerai su aspidi e vipere, / schiaccerai leoni e draghi. / Lo salverò, perché a me si è affidato; / lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. / Mi invocherà e gli darò risposta; / presso di lui sarò nella sventura, / lo salverò e lo renderò glorioso. / Lo sazierò di lunghi giorni / e gli mostrerò la mia salvezza“.
Il tema dei novissimi è anche richiamato da una Bibbia lasciata aperta nel penitenziario nell’ultima puntata della terza serie. Perché i visitatori con cattive intenzioni possano leggere immediatamente questo ammonimento: “Quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Gv 3, 29).
Ci sono riferimenti a Dio rintracciabili in diversi episodi. Si potrebbe richiamare l’emblematico discorso tra Rick e Hershel Greene, il fattore-veterinario della seconda serie. Nella prima serie, sulle mura di una casa di suicidi si legge una scritta a caratteri cubitali: “Dio perdonaci”; e, sempre nella prima serie, Jim, uno dei compagni di Rick, viene morsicato.
Sa di essere condannato. Quando la febbre inizia a divorarlo, chiede di essere abbandonato al suo destino, ai lati della strada, all’ombra di un grande albero. Ascolta il programma di viaggio della carovana, l’ipotetica corsa verso la salvezza e commenta un improvviso rumore rivolgendosi a Rick: “Quello che senti è Dio che ride dei vostri piani”.
Dio viene anche invocato da uno dei più disperati personaggi della serie, Marle, che in una delle prima puntate si ritrova ammanettato sul tetto di un grattacielo in attesa di un attacco degli zombie. Non si rassegna alla sua fine e grida a squarciagola verso il cielo: “Aiutami, mostrami la via dimmi, cosa devo fare”.
Dicevamo in apertura che i segnali indicatori del successo di The Walking Dead siano numerosi. L’alto interesse per le atmosfere apocalittiche e dark da “finale resa dei conti” era nell’aria da tempo, specialmente negli Stati Uniti. Sul versante letterario, basti pensare all’entusiastica accoglienza riservata alla Strada di Cormac McCarthy, cupissima road novel (attenzione al finale salvifico, però) che da sola avrebbe meritato il Nobel per il “principe degli esclusi”, o a opere cult come Io sono leggenda di Richard Matheson (ottima la resa cinematografica con Will Smith) o al troppo trascurato (ma solo in Italia) Un cantico per Leibowitz di Walter Miller.
Un mondo sotto assedio e senza apparente via di scampo: ecco un altro tema che può aver coinvolto in modo così clamoroso (e forse inconscio) tanti spettatori che hanno visto incrinarsi l’american dream, collassare le Twin Towers, e, soprattutto, il sopraggiungere di una strangolatrice quanto improvvisa crisi economica.
L’appeal per il pubblico più giovane è dovuto anche all’alto tasso splatter della serie, che, pare, si sia aggiudicata il poco invidiabile primato di violenza della stagione, davanti a produzioni come Spartacus o Trono di spade.
Ammazzamenti a parte, un portato interessante della serie riguarda la concezione della famiglia. Per fortuna, e a dispetto di molte altre realizzazioni, qui viene ancora considerata un’oasi dove rifugiarsi quando si è sotto attacco. Soffriamo con Rick quando apprendiamo che l’unità famigliare è minacciata. Speriamo con lui in una totale e piena riappacificazione con la moglie.
Sembra che la sottotraccia della serie siano motti del tipo: “l’unione fa la forza”, oppure “da soli nella vita non si riesce, con gli altri sì”. Non sarà una notizia sconvolgente, ma in tempi di individualismo esasperato è già qualcosa. In un momento cruciale, la moglie chiederà a Rick qualcosa di certo, un appiglio cui aggrapparsi nello sfacelo. Rick esclamerà: “L’unica cosa certa che so dirti è che io ti amo”. Bene così.
Per amore di verità, va ricordato che la serie non è certo adatta al pubblico dei giovanissimi, oltre all’eccesso di sangue, alcune scene di sesso esplicito macchiano in modo netto alcune puntate.
Qualche riferimento letterario. Le ambientazioni della sceneggiatura rimandano alla poetica ruvida di scrittori del Sud, come Faulkner, citato esplicitamente, o il metafisico Melville. Ma si potrebbe ricordare anche la cattolica e vigorosa Flannery O’Connor. Per il versante italiano, sono diversi gli autori che nella loro poetica hanno lambito i temi del viaggio, della morte e della guerra. Due possibili richiami: Eugenio Corti e Beppe Fenoglio.
Il primo ne I più non ritornano (1947) ha lasciato uno sconcertante diario della ritirata di Russia che sembra scritto ieri, tanta è sua la freschezza narrativa. Ecco un passo che potrebbe comparire senza problemi in una puntata di The Walking Dead: “Il carabiniere − amico d’uno dei nostri uomini − mi raccontò anche una strana avventura che gli era capitata ad Arbusov. Si trovava a far capannello con altri quattro o cinque soldati, quando in mezzo a loro era esploso un razzo di katiuscia, che aveva abbattuto tutti, lasciando in piedi lui solo. L’impressione era stata fortissima, anche perché gli altri apparivano letteralmente dilaniati; uno aveva avuta la parte anteriore del torace asportata di netto da uno scheggione: si vedevano polmoni, cuore e stomaco intatti: «Come si fosse aperto un libro», mi spiegò. Per il trauma il carabiniere era uscito di sé, e s’era convinto d’essere morto: non era più lui che viveva, ma la sua anima. Era rimasto in tale convinzione per alcuni giorni, finché, trovato del cibo, si era potuto rinforzare un poco. Durante quel periodo andava all’attacco con gl’italiani, e li incitava con la voce e col gesto; non sparava però, e non si riparava dal piombo nemico, perché un morto non può né uccidere né essere ucciso“.
Anche Beppe Fenoglio ha miscelato sapientemente il viaggio con la morte, la speranza con la memoria. Il suo incompiuto capolavoro, Il partigiano Johhny, è forse il più straordinario romanzo di formazione del ‘900 italiano. C’è un ragazzo che deve imparare la vita nella tempesta della seconda guerra mondiale. Grazie alla sua tempra, impara a resistere, a combattere, anche da solo, sulle colline invernali intorno ad Alba. Ecco, nel pilot del Walking Dead, se ci è concesso accostare generi e cronologie così diversi, si può rivedere l’eroe che va in solitaria verso il suo destino. Con la consapevolezza di doversi sacrificare per tutti. A ogni costo.
Proprio come il Johnny di Fenoglio: “Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito […] in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra” (Il partigiano Johnny, cap. IV)”.