Se volete vedere dal “vivo” l’uomo vitruviano, il celebre disegno di Leonardo, quello che sta sul verso della moneta italiana da un euro e cucito sulle tute degli astronauti della Nasa, avete tempo sino al 1° dicembre. Per ragioni di conservazione il disegno viene esposto all’incirca una volta ogni 30 anni. L’ultima è stata nel 1980: ora le Gallerie dell’Accademia di Venezia, che dal 1822 lo conservano tra i propri tesori, propongono una mostra che ruota in buona parte attorno a quel celebre disegno (in tutto sono comunque esposti 52 fogli di Leonardo). 



Perché val la pena vedere dal vero quel foglio di 34 cm per 24, che abbiamo visto riprodotto migliaia di volte? Perché vedendolo dal vero si ha una dimensione meno idealizzata del genio di Leonardo. 

Facciamo un passo indietro di 523 anni. Siamo nel 1490. Leonardo è a Milano, sua città d’adozione, a servizio di Ludovico il Moro, il quale lo manda a Pavia, città del ducato milanese, per studiare il problema delle fondamenta del Duomo che doveva essere costruito su progetto, pare, di Bramante. A Leonardo si chiede quindi la soluzione di un problema tecnico, e questo già ci porta in terreni che poco hanno a che fare con quella prospettiva idealizzante con cui è sempre stato guardato. A Pavia Leonardo fa un incontro importante e fortunato: insieme a lui Ludovico aveva chiamato anche Francesco di Giorgio Martini, architetto, costruttore di fortezze, ma soprattutto coautore di uno dei più bei palazzi del mondo: quello per Federico di Montefeltro ad Urbino. Come tutti gli architetti di quella straordinaria stagione della storia italiana, era anche un teorico e a Pavia era arrivato portandosi dietro il Trattato scritto dal più celebre teorico dell’archiettura di tutti i tempi: Vitruvio. Francesco lo stava traducendo dal latino in italiano volgare. Com’è ben noto Leonardo non era “uomo di lettere”, quindi non conosceva il latino e quindi in occasione di quel viaggio a Pavia aveva avuto l’occasione di colmare finalmente quella falla. Si era letto il Vitruvio tradotto, come sua consuetudine aveva riempito di appunti i foglietti che portava sempre con sé. E poi, una volta arrivato a Milano, aveva messo in figura, su foglio grande, quel che aveva recepito dal Trattato: cioè quell’insieme di proporzioni matematiche che stanno alla base dell’”architettura” del corpo umano. 



Se si osserva dal vero quel disegno che è di una meravigliosa linearità e chiarezza, non si può non notare che buona parte del foglio è occupato da un testo scritto, in cui Leonardo riporta la “ricetta” desunta dal testo di Vitruvio. È in sostanza un appunto di lavoro, che l’artista si annota, ad uso futuro. 

Ma li annota non dopo aver verficato attraverso il disegno che le regole fissate da Vitruvio funzionassero davvero. Il disegno, insomma, non nasce come desiderio di dare corpo ad una visione perfetta e idealizzata (in questo caso lo avrebbe lasciato solo sul foglio, senza “sporcarlo” con un testo che oltretutto solo lui poteva leggere). Nasce per un’ansia sperimentale che spinge sempre Leonardo a indagare su qualunque cosa la realtà gli metta sotto gli occhi. 



Leonardo non è artista che conosca punti di arrivo. È un cantiere sempre aperto, non fissa mai paletti perché sa che la realtà è sempre in movimento e che nessuno può illudersi di possederla. È un campo di indagine affascinante ed inesauribile, a cui lui si dispone con curiosità instancabile. Per questo, visto dal vero, l’Uomo Vitruviano scende da quel piedistallo di perfezione su cui l’immaginario collettivo lo ha messo. E diventa più semplicemente (e concretamente) un momento di lavoro di un grande sperimentatore. 

Dopo di che si passa immediatamente al foglio successivo, perché c’è tanto altro da indagare. Davvero Leonardo è un genio tutto da scoprire.