C’è un canto popolare in Germania che ancor oggi i bambini conoscono: «Eia popeia was raschelt im Stroh?» – «Ninna-nanna, che cosa fruscia nella paglia?». Niente paura: in quel caso sono soltanto oche. Ma a quel fruscio è giusto ripensare quando si parla di Werner Jaeger (1888-1961), uno dei massimi filologi del secolo scorso.
Nell’arco di dieci anni esatti l’editore Bompiani ha rimesso in circolazione due suoi classici: dopo Paideia, ora anche Cristianesimo primitivo e paideia greca, che è del primo l’esplicita continuazione. La stessa rinascita hanno avuto, e nella stessa collana, opere di altri grandi antichisti tedeschi, come Max Pohlenz e Paul Friedländer. Onde la gratitudine del lettore, che può disporre di nuovo e agevolmente di libri che hanno segnato tappe fondamentali degli studi. È vero che ristampe come queste dovrebbero sempre coniugarsi con un ripensamento critico sull’opera, sull’autore e sull’epoca in cui apparvero, e in effetti nel caso dell’ultima ristampa jaegeriana buona parte del volume è occupata da saggi di vari specialisti chiamati a riflettere, con indubbio beneficio, sui singoli capitoli. In più è offerto a fronte anche il testo inglese originale: risorsa preziosa, come diremo meglio appresso, quando si valuta un ‘classico’.
È invece assai meno certo che questa doppia operazione editoriale consenta davvero un’adeguata comprensione storica di Jaeger e del ruolo svolto da quei suoi fortunati lavori. Il lettore di oggi, se non è altrimenti avvertito, capisce poco o punto del contesto in cui nacquero quelle pagine, quali fossero gli intendimenti profondi di Jaeger, donde prese le mosse il cosiddetto «Terzo Umanesimo» di cui egli fu il più illustre esponente, quali posizioni egli assunse attraversando la più critica fase della storia tedesca (due guerre catastrofiche, il nazionalsocialismo, il trasferimento in America etc.), quali nessi egli vedesse tra filologia classica e teologia e da ultimo a quali obiettivi concreti mirasse. Parliamo del resto di una riflessione di portata amplissima, che va da Omero al IV sec. d. C., lungamente stratificata nel tempo e spalmata in quattro libri (per limitarsi a queste ristampe): dal ’34 al ’44 i tre libri di Paideia (il I in Germania, gli altri due in America), nel ’61 il Cristianesimo primitivo. In Italia il I di Paideia uscì prontamente (1937), gli altri seguirono negli anni Cinquanta (1955, 1959), il Cristianesimo nel ’66. Questa carrellata di numeri suonerà forse pedante, ma è necessaria, perché i libri, specie i grandi libri, non escono mai avulsi dal contesto: e infatti il I volume di Paideia non si capisce senza Weimar e la Machtübernahme di Hitler, il II e il III riflettono lo sguardo di chi si trova ormai al di là dell’Oceano, mentre il Cristianesimo primitivo è quasi il testamento di un filologo che cerca per l’Occidente la saldatura dei valori classici e cristiani.
Proprio per questo una riflessione approfondita su Jaeger avrebbe dovuto affrontare molte e rilevanti questioni: d’un lato la sua opposizione al George-Kreis, dall’altro la necessità, diversamente avvertita nella generazione degli allievi di Wilamowitz, di superare lo storicismo, nel timore che lo studio dell’antico fosse segmentato in un filologismo sterile, incapace di parlare all’oggi. Il che aprirebbe altre e feconde vie: da una parte suggerirebbe ad esempio di considerare le differenze tra l’umanesimo di Jaeger e quello di Rudolf Pfeiffer, uno dei pochi tra i grandi filologi tedeschi di quella generazione a sentirsi legato alle tradizioni cattoliche dell’umanesimo europeo; dall’altro porterebbe ad aprire un capitolo per noi tanto più rilevante, vale a dire la ricezione di Jaeger in Italia, con le positive aperture di un filologo attento all’idealismo crociano quale Augusto Rostagni e invece l’immediata e acuta stroncatura di Guido Calogero contro il primo volume di Paideia; la posizione molto più favorevole di Piero Treves, che avviò persino un carteggio con Jaeger, offrendosi di tradurre in italiano gli Humanistiche Reden und Vorträge; i successivi raffreddamenti dello stesso Treves, l’abbandono del progetto, il completo silenzio sulla continuazione di Paideia. E poi ancora la glaciale distanza, avvertita e patita da Jaeger, di un filologo profondamente legato al mondo tedesco come Giorgio Pasquali, la risoluta liquidazione di uno storico come Momigliano. Dubito che di tutto questo i lettori delle recenti ristampe jaegeriane escano consapevoli.
Né al lettore vengono presentati i documentati rapporti di contiguità tra Jaeger, il nazionalsocialismo e la robusta polemica antirepubblicana che segnò l’epoca di Weimar. Per alcuni studiosi questi aspetti rappresentano un ingeneroso esercizio di moralismo postumo. Ma non è moralistico, perché non è destinato a indignazioni o a condanne, e soprattutto non è postumo, perché del problema erano perfettamente avvertiti i lettori contemporanei. Non c’è bisogno infatti di setacciare la biografia di Jaeger per elencare magari i ripetuti riguardi, anche dopo il suo espatrio in America (la seconda moglie aveva ascendenze ebraiche), che per lui il regime ebbe sempre. È sufficiente leggere un articolo non a caso mai più ristampato nelle varie raccolte successive, «L’educazione dell’uomo politico e l’antichità», apparso nel ’33 su una rivista di propaganda nazista come «Volk im Werden». È sufficiente leggere Paideia, specie il I volume, che offre tutti i termini-spia in cui annegava la retorica dell’uomo-forte, della «razza superiore», del Führer, della Volksgemeinschaft. Sintomatica la reazione di uno studioso come Ernst Abrahmson: «Hai già letto Paideia di Jaeger?» – scrisse a Paul Oskar Kristeller – «Ci sono dei divertentissimi ‘nazistismi’» (più tardi entrambi avrebbero riso meno). Per non parlare della polemica antidemocratica («la democrazia non offre garanzie contro i pericoli della mancanza d’un capo»), del linguaggio razziale (le «occulte qualità ereditarie della razza e del sangue»), dell’invalicabile solco scavato verso i «popoli dell’Oriente» («a noi spiccatamente estranei per razza e spirito»).
Parole che colpiscono non già perché prevedano ricadute discriminatorie o peggio persecutorie (non prevedono né queste né quelle), ma perché vengono presentate come esito di uno studio storico e filologico: mentre non sono né questo né quello. Aggiungo che molte espressioni consimili sfuggono al lettore italiano perché la traduzione le ha edulcorate sino a farle svanire. Fenomeno ben noto, che scaturisce dalla mal riposta pietas verso valentuomini che non si vogliono confondere con la miseria dei tempi. Ma l’effetto è sgradevolmente censorio, e praticato a basso costo: basta ad esempio trasformare l’aggettivo «razziale» in «etnico» e la frase prende subito un’altra coloritura («le disposizioni etniche dello spirito greco»). Un altro esempio? In Paideia, nelle ultime, programmatiche parole dell’introduzione, Jaeger fa un esplicito riferimento all’attualità. Parla per questo dell’«ora presente» – siamo nell’ottobre del ’33, a pochi mesi dalla Machtübernahme di Hitler – «in cui l’intera nostra cultura, sconvolta da un’immane esperienza storica propria, ha iniziata una revisione dei propri fondamenti». Ma aufgerüttelt non significa affatto «sconvolta»: significa «risvegliata». Si rilegga la frase di Jaeger e si vedrà che il trapasso non è indolore. Per lui Hitler non ‘sconvolge’ la cultura tedesca: la pungola, la scuote, la risveglia. C’è da chiedersi se il traduttore non abbia sovrapposto a Jaeger un pensiero suo: gobettiano e antifascista, Luigi Emery era espatriato in Germania. Che lì la scena pubblica avesse ai suoi occhi tratti di ‘sconvolgimento’ è ben possibile. Ma certo questa frase, che al lettore italiano viene offerta quasi fosse la chiamata degli antichisti a recuperare il valore di una cultura sconvolta dal nazismo, suscitava nei tedeschi contemporanei reazioni perfettamente opposte. Tanto in pubblico, come la coraggiosa e stroncatoria recensione di Bruno Snell, quanto in privato.
Del I volume di Paideia si conserva la copia personale di un altro principe della filologia tedesca, Paul Friedländer, autore tra l’altro di un fortunato libro su Platone ristampato in questa stessa collana. E basterà seguire i commenti che Friedländer ha lasciato sui margini del proprio esemplare per non avere più dubbi sull’impressione dei contemporanei. Quando Jaeger scrive che «un moderno Stato-guida [Führerstaat]» dovrebbe trovare una via «tra il ruolo di Führer cui Pericle seppe dare un’impalcatura democratica e il dominio individuale di Dionigi, unicamente fondato sulla forza militare», Friedländer scrive a margine: «tell it Hitler!» (non sarà un caso che questa frase sia poi scomparsa nelle edizioni successive di Paideia: ovviamente nell’italiana non c’è). Quando Jaeger insiste sull’identità unicamente «ellenocentrica» del mondo moderno, Friedländer annota: «gli Ebrei sono ignorati». Quando Jaeger rimarca il «risveglio» della cultura tedesca «nell’ora presente», Friedländer commenta: «Nazi!». Difficilmente si accuserà Friedländer di moralismo postumo.
Tutto questo andrebbe tenuto presente anche nella valutazione del Cristianesimo primitivo, che prosegue Paideia, e porta a compimento una rivisitazione dell’antichità, da Omero al cristianesimo, connotata da un impianto spiccatamente teleologico. E infatti ritornano gli stessi meccanismi di fondo: l’esasperato ellenocentrismo, il forzato continuismo, l’esclusione degli «orientali», la limitazione della componente giudaica negli scritti del Nuovo Testamento e la ricerca a tutti i costi di elementi di «grecità».
Nulla di particolarmente originale, del resto. Si tratta anzi del lontano adeguamento a una «moda» (il termine è di Eduard Schwartz) che prese piede tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, anche per la spinta della Religionsgeschichtliche Schule, e che ebbe forti ricadute sulla teologia liberale. Wellhausen, così caro invece al suo maestro Wilamowitz, sembra per Jaeger passato invano. Ma il problema è ben più ampio: la verità è che per il Nuovo Testamento (e non solo) la bibliografia su cui si basa Jaeger era già vecchia di decenni. Di qui in poi varie altre forzature: la centralità della sede episcopale romana all’altezza della lettera di Clemente ai Corinzi è manifestamente esagerata; la condanna, rapida, ma drastica della posizione antigreca di Taziano è storicamente irricevibile; nella valutazione del platonismo di Gregorio di Nissa il filtro neoplatonico è oltremodo ridotto. E si potrebbe continuare.
Ma è più interessante lo sfondo complessivo di questa coraggiosa e magnetica riflessione. Ma andrebbe ben altrimenti sondato: il rapporto tra Jaeger e la teologia liberale, l’opzione filo-erasmiana e anti-luterana, il progressivo dissolvimento delle differenze teologiche tra protestantesimo e cattolicesimo, nel nome di un interconfessionalismo che andrebbe compreso alla luce della storia, anche ecclesiastica, del mondo riformato. A questo dissolvimento, d’altronde, ne risponde un altro: della teologia in filosofia. L’esito di questi due movimenti – si badi – è convergente: uniformando a monte filosofia e teologia e a valle cattolicesimo e protestantesimo, Jaeger riesce infatti ad accorciare strategicamente la distanza tra cristianesimo antico e società moderna, e nel leggere com’egli indaghi il cruciale cinquantennio tra il 310 e il 360 sembra di rivedere sotto i nostri occhi il cinquantennio 1910-1960. La posta in gioco infatti è la stessa: nel IV secolo, dirà in un’altra sua opera tarda, «la teologia filosofica universale si fa avanti per fermare il minacciato crollo di tutte le autorità conosciute». È evidente che Jaeger aspira agli stessi esiti: il cristianesimo come forza direttrice e ordinatrice della societas. Naturalmente per cristianesimo egli intende chiesa, istituzione, organizzazione intellettuale, teologia alta. Jaeger è un finissimo grecista, le sue edizioni critiche della Metafisica di Aristotele e del Contro Eunomio del Nisseno fanno ancora testo (ma nel tempo reggerà meglio il Nisseno di Aristotele), eppure con l’avanzare degli anni il suo pensiero corre piuttosto a due diversi omonimi: Tommaso di Kempen (di cui era lontano concittadino) e Tommaso d’Aquino.
Sfugge infine l’aspetto più macroscopico. Tutta la costruzione jaegeriana nasce da un obiettivo molto concreto: difendere l’insegnamento delle materie umanistiche nella scuola. È questo il motore di tutto, ed è lo stesso Jaeger ad ammetterlo: in una lettera a Donald O. White egli spiega con chiarezza che tutto il suo concetto di «Terzo Umanesimo» (e il termine non è suo) scaturiva da uno sforzo «to preserve Germany’s classical schools».
Lo capì alla perfezione, ancora una volta, Giorgio Pasquali: «in quel terzo umanesimo io non riesco a scorgere una filosofia nuova, ma solo un tentativo, certo intelligente, di difendere la scuola umanistica dagli assalti cui da un secolo è esposta in Germania per opera dei propagatori degli studi tecnici». Si tratta dunque di un problema endogeno al mondo tedesco ed è dunque fuorviante leggere queste opere di Jaeger senza tener conto della discussione in Germania sulla riforma della scuola: solo più tardi la sua riflessione ha provato ad assumere carattere universale e dunque esportabile. Del resto il problema, ancorché in altra forma, era attuale anche in America, è attualissimo anche per noi. Onde la soluzione da lui prospettata, che anche a costo di brutali semplificazioni potremmo sintetizzare così: Jaeger si persuase che l’unico modo per salvare la cultura classica nelle scuole fosse di saldarla fermamente all’identità cristiana; che l’una garantisse la legittimità dell’altra, riconoscendola come sua progenitrice. Di qui il continuismo. Di qui l’ellenocentrismo. Non si vuol dire, beninteso, ch’egli non vi credesse e fosse solo un’operazione tattica: si vuol dire che senza tener conto di questo concreto obiettivo non si capisce nulla di Jaeger.
La conclusione è inevitabile. Chi oggi legge, ristampa, commenta, recensisce i libri di Jaeger dovrebbe rispondere con la dovuta chiarezza a questo interrogativo: se si possa dare studio della cultura greco-latina, se si possa dare nelle scuole studio della cultura greco-latina, anche al di fuori del paradigma continuistico col cristianesimo. Questa è la vera domanda. E noi rispondiamo sì.
E allora, che cosa fruscia nella paglia? Il verso non è soltanto nel canto dei bambini, ma anche in un magnifico Lied di Heine dedicato a Carlo I: il poeta immagina che l’antico re inglese capiti nella casupola di un carbonaio, veda nella culla un bimbo, abbia il premonimento che proprio quel bimbo un giorno sarà il suo assassino: «Eia popeia, was raschelt im Stroh?». Il testo piacque al Carducci che lo volse in italiano: «Ninna nanna! Che cosa si rimescola | Ne la paglia? Perché bela l’ovil? | Tu porti il segno in fronte e ridi orribile | In mezzo al sonno, o pargolo gentil». Poco prima di dover abbandonare la Germania per le sue origini «non ariane», anche Erwin Panofsky lesse il libro di Jaeger. E nel restituirlo a Bruno Snell, il grande storico dell’arte lo accompagnò con un fulminante, sinistro eppure profetico gioco di parole: «Eia Paideia, was raschelt im Stroh?». –
Perché Panofsky aveva capito benissimo che cosa frusciasse nella paglia di Jaeger.
–
Werner Jaeger, “Cristianesimo primitivo e paideia greca”. Con saggi introduttivi di autori vari, collana Il pensiero occidentale, Bompiani, 2013