“I morti non parlano, ma i loro corpi sì”. Così si apriva il saggio molto apprezzato che, qualche anno fa, uno dei più noti storici italiani ha dedicato al rapporto che esiste tra lo studio delle guerre e dei grandi massacri del Novecento, da un lato, e la drammatica documentazione fotografica che ne ha conservato le tracce più terribili e scioccanti (Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso, Einaudi, Torino, 2006).



Il tema è complesso, scivoloso, sensibile, suscettibile di strumentalizzazioni. Come si avvertiva in quel saggio, di fronte alle fotografie dell’orrore il rigore filologico è ancor più necessario, allo storico, di quanto non lo possa essere in altri casi: perché è facile deviare lo sguardo e rintanarsi comodamente nell’applicazione di metodologie di indagine più asettiche e distanti; ma anche perché è ancor più facile convincersi che, una volta definito grazie all’inequivocabilità delle immagini il confine di ciò che è vero e di ciò che è falso, ogni discorso possa dirsi definitivamente concluso. Come se, in fondo, le immagini parlino da sole e non possano avere che un unico e inevitabile effetto: non determinare più gli eventi di cui esse sono cruda testimonianza e feroce accusa.



Eppure, sappiamo bene che, purtroppo, le cose non sono andate, e non vanno, così. Nonostante l’abbagliante ricchezza emotiva della sofferenza che promana dalle immagini dei campi di sterminio della Germania nazista, il carico di sdegno che è seguito, e che ancora segue, all’acquisizione della possibilità reale dell’indicibile non ha evitato e non evita tuttora l’uso della violenza, i crimini di guerra e la violazione dei più elementari diritti umani. E le stesse foto, o foto pressoché analoghe, sembrano ripetersi e sommarsi, accatastandosi l’una sull’altra, in un catalogo capace di condannare ripetutamente e senza appello la nostra stessa natura.



Sicché l’uso delle immagini presenta profili di grande ambiguità, quasi si potesse azzardare, anzi, che, nell’ambito di una dominante società dell’immagine tout court, anche quelle immagini rischino di rientrare sistematicamente nel novero degli oggetti di consumo, delle utilità più o meno gradevoli, delle verità strutturalmente, e in questo caso paradossalmente, disponibili e controverse.

Per comprendere quanto questi temi siano di capitale importanza – non solo nel contesto storiografico, ma anche in quello dell’opinione pubblica (che, come ammoniva Jeremy Bentham, è il più forte presidio rispetto a qualsiasi forma di tirannia, oltre che di sviamento della potente e illuminante forza della ragione) – possiamo ora avvalerci di un ulteriore e importante tassello ricostruttivo. L’occasione, infatti, è data dalla pubblicazione di una bella e accurata indagine di Benedetta Guerzoni (Cancellare un popolo. Immagini e documenti del genocidio armeno, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013), i cui meriti sono davvero molteplici.

Innanzitutto si tratta di un lavoro che, quanto al caso armeno, colma una lacuna, per così dire, “di base”. Le tracce visive dell’archetipo del genocidio novecentesco non sono mai state raccolte e analizzate in modo così preciso e sistematico. Il volume, quindi, costituisce senz’altro uno strumento indispensabile di approfondimento e di confronto per la migliore comprensione di uno tra gli eventi tragici più dibattuti e carichi di significati e implicazioni del secolo scorso.

Tuttavia il valore della ricerca non è solo, o puramente, documentale. L’Autrice è pienamente consapevole delle peculiarità assoluta della testimonianza fotografica, e tenta così di proporre una rassegna critica dei modi e dei contesti, anche assai differenti, in cui, con riguardo al genocidio armeno, le immagini sono state più volte utilizzate, rivendicate, ricordate, invocate, brandite, fatte oggetto, unilateralmente, di azioni politiche, umanitarie, di propaganda, di memoria pubblica, di promozione ideologica.

Ecco, se questo libro porta con sé un valore aggiunto rispetto a quello (già notevole) del supporto puramente iconografico, esso consiste nella dimostrazione circostanziata che l’iconografia stessa è un potentissimo dispositivo. È capace di operare sia sul piano epistemologico (guidando, cioè, il nostro modo di conoscere la verità e di orientare così, di conseguenza, le nostre scelte pratiche), sia a livello liturgico (offrendo, con l’atto della sua pubblicazione, un palcoscenico ideale per rappresentazioni e narrazioni storiche, etiche, politiche e anche giuridiche). È materiale, in altri termini, che va trattato sempre con estrema cura, e che è capace di vivere anche di vita propria e di trasmettere, in contesti storici e sociali del tutto diversi, se non opposti, i medesimi significati e gli stessi stereotipi, così come di cambiarli in modo radicale, a seconda di chi se ne faccia portavoce. Come avverte l’Autrice, le immagini non sono sempre e soltanto il modo migliore per rappresentare la realtà; esse sono la prova di come la realtà “è vissuta e immagazzinata nella società”. Le immagini, in buona sostanza, non sono mai sufficienti, mai bastevoli; dipendono dalla consapevolezza di chi le riceve.

Arriviamo così, nella lettura, alla metabolizzazione di un’intuizione assai significativa, che ci aiuta, forse, a tentare una spiegazione del segnalato paradosso sulla straziante ambiguità dell’immagine e sulle correlate chances cognitive, ma anche pedagogiche, che essa contestualmente ci offre. Le foto dell’orrore sono ambigue perché ci separano e ci isolano dagli eventi, permettendo così di giudicarli a modo nostro; perché senza la comprensione dell’identità e dei motivi ispiratori degli attori in gioco possiamo accedere soltanto a poche o a mezze verità, determinando il nostro giudizio su binari predefiniti.

Andando al di là dell’immagine, però, ascoltandone fino in fondo la sirena, possiamo accorgerci, ad esempio, che la persistenza anche attuale della questione armena non è un affare di esclusiva pertinenza dello Stato armeno o della nazione turca, né si risolve in un problema di sola verità storica o di prioritaria ri-affermazione di principi universali o di limiti invalicabili. Effettivamente, quella questione è sempre stata alimentata anche da interessi altri, ed anche dai paesi europei e occidentali, rispetto ai quali la “nudità” dell’orrore e delle sue vittime, una per una, è rimasta sempre e comunque tale, e quindi muta, pronta a dare voce a maschere che in tal modo possono restare, drammaticamente, ancor più nude e inefficaci; e pronte a sommarsi a prossime immagini dello stesso, durissimo tenore.

Così può essere, fatalmente, anche per le più nobili e consolidate dottrine dei diritti umani: tutte fieramente occidentali, tutte così fallibili ed imperfette, eppure – come ripetutamente accade, e come sta avvenendo, del resto, anche nell’odierna questione siriana – capaci, se del caso, di giungere all’affermazione, di fronte alle prove conclamate dell’indicibile, della giustificabile possibilità di interventi armati. Così come – si potrà dire – aveva suggerito ante litteram, proprio in occasione del genocidio armeno, anche Henry Morgenthau, l’ambasciatore americano a Costantinopoli. Quelle dottrine e queste azioni, però, senza riflessione, senza memoria e senza coscienza culturale, rimangono ancora esposte al potere ambivalente delle immagini e delle auto-assoluzioni che queste possono consentire e perpetuare. Ed anche la lezione di Morgenthau, alla fine, può riuscirne del tutto e nuovamente stravolta.